Non amo la neve, non mi piace Rigoni Stern con il suo sergente. La neve fresca e soffice ha un rumore odioso quando è calpestata: stride come unghie sulla lavagna. Un rumore da allegare i denti.
La nebbia invece è proprio un’altra cosa. Non è uno sport invernale o una vacanza abbronzante. È fastidiosa, ammorbante, a volte letale. È sempre descritta in maniera inquietante: se non nasconde assassini e fantasmi quantomeno favorisce la depressione e l’astenia.
Proprio non si può dir bene della nebbia. Andava di moda nell’Ottocento, ma poi è stata usata troppo spesso e troppo male in gialli e filmetti di dozzina, e ha finito per perdere la sua aura di mistero.
Usare la nebbia in un romanzo o un film credo sia considerato disdicevole, un espediente da quattro soldi, insomma. E poi non c’è molta speranza per narratori e registi dopo le descrizioni della nebbia sulfurea che avvolge e ottunde la Londra di Holmes, che con la fronte appoggiata al vetro della finestra si lamenta che il crimine è morto, Watson. Conan Doyle ha descritto la nebbia sporca in modo chirurgico, da meteorologo. Ha fatto i giochi: dopo lui nessuno.
Le mie esperienze con la nebbia sono poche, perciò memorabili.
Ricordo una cortina sottile, pulita e trasparente che a volte nelle mattine d’inverno avvolgeva palazzi e strade di Roma senza toglierle nulla della sua metropolitanità. Tram, binari, strade, semafori, auto: tutto rimaneva quotidiano e pericoloso, nulla diventava romantico, neanche nei bei quartieri come il Coppedè. Era già svanita ai primi tepori del sole invernale.
Ma la frequentazione più stretta con la nebbia l’ho sempre avuta in treno, viaggiando verso Nord.
La notte in cuccetta finisce presto, non so perché ma a nessuno piace dormire in cuccetta, e succede sempre che mentre io cerco di strappare qualche dieci minuti, le compagne di viaggio si alzino e facciano tanto di quel casino che sembra si stiano preparando a smontare il vagone. Così mi tocca scendere precocemente dal trespolo della cuccetta alta e attaccarmi al finestrino a guardare il paesaggio che corre via.
Una volta che stavo arrivando a Firenze mi hanno buttata giù così presto che era talmente buio e sembrava non ci fosse speranza che il sole sorgesse.
Fuori le luci dei lampioni e delle insegne, le auto ammassate sulle strade all’ora di punta mattutina per l’entrata negli uffici, i fendinebbia accesi, tutto mischiato in un profondo nebbione che paralizzava il tempo. Poi una lunga galleria: all’uscita il giorno fatto e una campagna punteggiata da casette e orti, alberi di fico, cannicci per i fagiolini, imposte colorate. Non sono andata a guardare sulla cartina o su Google Maps, non voglio sapere dov’è quella benedetta galleria, da dove a dove va, non voglio togliermi di dosso il senso di magia di essere passata da un mondo buio e nebbioso ad uno luminoso, caldo e vivo.
Una nebbia di mare, umida e salsa, calda, quasi bollente, soffocante. Non conosco le dinamiche climatiche che conducono alle “muffonate”, che sono comunque rare, ma quel giorno mi sentivo in Scozia. L’amata Scozia, la bramata Inghilterra. Le barche ormeggiate sulla spiaggia, che perdevano i loro contorni e i colori accesi in una cortina grigia, le vaghe sagome degli attrezzi da marineria, ancore, nasse e cime avvolte in grandi turbanti, mi hanno fatto pensare alla fatale spiaggia di Manderley, descritta da Daphne du Maurier, alla quale si arriva attraversando il bosco di rododendri profumati. È stato bello sentirsi in un romanzo. Non mi sarei stupita se avessi visto correre sulla spiaggia una figura slanciata dai lunghi capelli neri. Mi sembra…sì, credo di sì, che ci fosse Rebecca in spiaggia, quel giorno. Peccato (o forse privilegio) che l’abbia vista solo io.
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