E già. The Affair ha portato a termine la seconda traversata telefilmica della sua vita.
Purtroppo, dopo l’ottavo episodio non ho più potuto seguire regolarmente la serie. I protagonisti della mia disfatta sono sempre gli stessi: università, vita da fuori sede, volantini delle offerte al supermercato, esami. Se fosse un telefilm, sarebbe banale e lo cancellerebbero dopo due puntate. Ma questa è un’altra storia.
La storia che voglio ricapitolarvi oggi è appunto quella partorita dalle menti creative di Sarah Treem e Hagai Levi che, per il secondo anno di fila, ci hanno regalato momenti di autentica bellezza.
Ora, eviterò di commentare ogni minima cosa successa fra il nono e il dodicesimo episodio, perché ne uscirebbe un romanzo a puntate. Inizierò piuttosto col dire che gli ultimi tre episodi hanno decisamente rialzato il tono della serie, che vista complessivamente stava perdendo la solidità che aveva nella prima.
Come ho già detto diverse volte, il bello di questo telefilm sta nel fatto che se ci pensi un attimo, non puoi stimare veramente nessuno dei personaggi perché tutti, in un modo o nell’altro, sono colpevoli di qualcosa. Il fatto di sentirsi continuamente in difficoltà nel capire chi ha torto e chi ha ragione nelle questioni che ci vengono raccontate, il fatto di farci venire il dubbio, rende questa serie interessante. Non si può dire che gli spunti di riflessione manchino.
D’altronde è proprio Scott il motore dell’intera serie. O meglio, la sua morte. Piano piano la sua figura si insinua
Come le tessere di un domino.
Cosa fanno le tessere di un domino quando cadono? Si accasciano una sull’altra. Ed è così che fanno i nostri personaggi: Noah si appoggia ad Helen perché, passata la tempesta, rimane la persona che più lo conosce. Conosce di che fattura è l’uomo che non ha mai smesso di amare. Alison si appoggia a Cole, perché non sa cosa fare della sua vita e allora le prova tutte. Cole sembra appoggiarsi ad Alison, ma in realtà è Luisa che sceglie per cadere in caduta libera, come si fa quando si scommette ancora una volta su una persona.
Alison e Noah non si scelgono per cadere. Alison è egoista, c’è poco da fare. Le parole risentite di Oscar non ci suonano così sbagliate come forse ci aspetteremmo. La nostra faccia è la stessa di Noah quando le sentiamo: le prendiamo in considerazione, perché forse è vero che lei è tutta una messa in scena.
Come dicevo, nessuno è completamente libero dalle colpe. Come dice Helen, è un’interminabile disastro. Dove si colloca lo spettatore? In chi si rispecchia maggiormente? E ha il coraggio di rispecchiarsi in persone così imperfette? Cerchiamo la catarsi dell’intrattenimento, per poi trovarci a riflettere su noi stessi i dubbi che riserviamo ai personaggi fittizi.
La questione della colpa è in realtà la più complessa, a pensarci. Chi è imputabile per la morte di Scott? Alison l’ha spinto, perché lui stava per violentarla, e soprattutto non aveva visto la macchina sopraggiungere. Helen guidava, in ovvio stato d’ebbrezza. Ma la macchina è di Noah, che decide di non soccorrere Scott. Tutti colpevoli? Tutti complici, questo è certo. Ora capiamo perché Helen ha fatto di tutto per aiutare Noah al processo.
Questa serie mi ha fatto capire che Noah e Alison non sono fatti per stare insieme. Non amano l’un l’altro, amano i drammi l’uno dell’altro. Sono affascinati dalla sofferenza. Solo così si spiega la loro fantastica unione unicamente quando uno dei due combina un guaio o versa nella totale disperazione. Quando la vita va avanti normalmente, nella quotidianità, sono due estranei che si scrutano da lontano.
Vedremo Noah andare in galera? Ora che sappiamo – da più punti di vista altamente discordanti – cos’è successo al matrimonio di Cole in pieno stile “nozze di sangue”, quali altri temi affronterà la terza stagione? Credo comunque che oltre la terza serie si rischia di uccidere l’intera storia. Spero quindi che si limiteranno alla triade, senza cercare di tirare acqua dove non ce n’è più. Ora attendiamo. Ci vediamo dall’altra parte.