Recensione: Anna, di Niccolò Ammaniti

Creato il 07 dicembre 2015 da Mik_94
La vita non ci appartiene, ci attraversa (…) Anna, nella sua inconsapevolezza, intuiva che tutti gli esseri di questo pianeta, dalle lumache alle rondini, uomini compresi, devono vivere. Questo è il nostro compito, questo è stato scritto nella nostra carne. Bisogna andare avanti, senza guardarsi indietro, perché l'energia che ci pervade non possiamo controllarla, e anche disperati, menomati, ciechi continuiamo a nutrirci, a dormire, a nuotare contrastando il gorgo che ci tira giù.
Titolo: Anna Autore: Niccolò Ammaniti Editore: Einaudi – Stile Libero Big Prezzo: € 19,00 Numero di pagine: 274 Sinossi: In una Sicilia diventata un'immensa rovina, una tredicenne cocciuta e coraggiosa parte alla ricerca del fratellino rapito. Fra campi arsi e boschi misteriosi, ruderi di centri commerciali e città abbandonate, fra i grandi spazi deserti di un'isola riconquistata dalla natura e selvagge comunità di sopravvissuti, Anna ha come guida il quaderno che le ha lasciato la mamma con le istruzioni per farcela. E giorno dopo giorno scopre che le regole del passato non valgono più, dovrà inventarne di nuove. Con "Anna" Niccolò Ammaniti ha scritto il suo romanzo più struggente. Una luce che si accende nel buio e allarga il suo raggio per rivelare le incertezze, gli slanci del cuore e la potenza incontrollabile della vita. Perché, come scopre Anna, la "vita non ci appartiene, ci attraversa".                                La recensione Sono stato così fortunato da non dovere aspettare. Quest'estate, l'imperdonabile ritardo nello scoprire quanto mi piacesse Niccolò Ammaniti mi ha permesso di saltare a piè pari i tre anni di attesa dal pare non riuscitissimo Il momento è delicato e gli strascichi di quella che, dalle interviste rilasciate, sembrava essere una tormentata crisi artistica. L'autore, raccontandosi a Che tempo che fa, parlava di mancanza di ispirazione; di un blocco. Come superarlo, se non tornando su sentieri che ci fanno sentire al sicuro? Anna, con una protagonista tredicenne e il futuro del mondo nelle mani dei bambini, ricorda più la storia di Michele e Filippo che le altre dell'autore romano – lo stesso Mezzogiorno infuocato a fare da sfondo, i giovani contro il dolore, il cielo rosso che fa sperare nella bontà del giorno dopo, i toni insolitamente delicati – ma, allo stesso tempo, ha il pregio di non essere scritta sulla falsa riga di nessun'altra. Perché ci sono stati sì due romanzi e una raccolta di racconti prima, ma Io non ho paura – ormai quindici anni fa – ha segnato la svolta vera. Quello è il suo romanzo che consiglierei per iniziare, meno grottesco e più lineare, ma altrettanto importante. Quello è il romanzo che, quando ti chiedono Ammaniti cosa ha scritto, puntualmente citi. Messo in scena in un futuro non troppo lontano, Anna immagina una Terra spopolata – gli abitanti sono stata decimati da un virus, la Rossa – in cui la Sicilia è l'originalissimo specchio di un mondo agli sgoccioli. Le catastrofi, come insegnano i blockbuster, accadono solo a New York; no? A essere colpiti, fagocitati dalla natura incontrastata, però, non i simboli delle metropoli internazionali – l'Empire State Building in frantumi, la Statua della Liberà decapitata di netto –, ma spiagge e porti della mia infanzia. Cefalù, di cui ricordo le rocce a strapiombo sul mare, i sassi sul fondo dell'acqua, i castelli di sabbia. Messina, dove mia madre, nel duemilauno, ha subito un intervento per correggere la miopia e dove, sotto le feste, prendevamo il traghetto per muoverci in libertà, finalmente, lungo lo Stivale. Si parlava da quando ero bambino del famoso ponte sullo Stretto, ma anche nel vicino futuro di Anna, alla fine, del progetto non se ne è fatto nulla. La tana di Scilla e Cariddi è larga tre chilometri appena e, oltre, potrebbe esserci la solita vita, secondo le fantasie, almeno, di una ragazzina che si muove solitaria in un'apocalisse che ha ucciso tutti gli adulti e che, per non gettare la spugna, racconta favole della buonanotte a suo fratello. Anna è quasi una donna – come le ha spiegato la mamma prima di morire, a breve avrà le prime mestruazioni e l'adolescenza che arriva rappresenta la perdita dell'immunità alla pandemia – e a quella di un nuotatore provetto, ad esempio, che regge l'isola sulle proprie spalle non crede ormai più. Ma quando si è abbastanza grandi per rinunciare alla dolce illusione del cambiamento? Cosa ci sarà oltre gli scheletri delle pale eoliche; dall'altra parte, nel Continente?  Il sogno di raggiungere lo Stretto, però, si complicherà presto. Il piccolo Astor – convinto che oltre i confini del Podere del Gelso non ci sia ossigeno, coprotagonista tenero e ingenuo come è – viene rapito, un giorno, dai bambini blu e portato al Grand Hotel Terme Elise per una notte di fuoco e bagordi. Per ritrovarlo, Anna dovrà superare indenne capannelli di bambini selvatici – i riti violenti, le collane di ossa, le fede pazza in una divinità vendicativa – e imparare a fidarsi, lei che è cresciuta nel timore del prossimo, dei suoi compagni di avventura. Un cane con tre nomi, a cui non resta che l'ultima delle sue sette vite; il giovane e sfortunato Pietro, che guarda Anna con gli occhi dell'amore ed è convinto che un paio di leggendarie Adidas gialle saranno la sua personale cura. Il pensiero comune, allora, corre al Signore delle mosche, La strada, La lunga marcia e, titoli sconosciuti ai lettore tipo di Ammaniti, troppo adulti per sapere cosa c'è sugli scaffali della narrativa per ragazzi, ai recenti distopici The Young World e Berlin. Non è il solito Ammaniti, però, e quest'ultimo lavoro, personale omaggio agli autori che ne hanno influenzato lo stile amaro e il gusto pulp, è un filino troppo citazionista, ma con la sua da dire.  Resta riconoscibile la voce, nobile l'intenzione. E Anna, soprattutto, una piccola, grande padrona di casa. Il narratore è esterno, si esprime in terza persona, ma Ammaniti – questa volta, meno onnipotente; meno Padreterno – segue i suoi protagonisti in silenzio, senza anticiparci se il destino sarà con loro benevolo o maligno. L'autore sembra gordersi le tappe del viaggio insieme a noi e il non prevederne gli scossoni e i tornanti, con l'ironia nera di cui spesso lo conosciamo capace, lo mostra quantomai coinvolto, vulnerabile, emozionato. Nonostante i paesaggi funerei, l'apocalisse fuori, in Anna – e per me è una novità - manca lo schiacciante senso di fatalismo. Quella sensazione che, da un momento all'altro, potrebbe succedere tutto a tutti. Ai personaggi non si risparmiano scelte estreme, dolori profondi, bagni di sangue, ma per la prima volta c'è davvero la speranza, che somiglia al lasciarsi il beneficio del dubbio. Questo Ammaniti, meno nichilista, non ne vuole sapere delle radiografie minuziose, dei back-up di anime. Questo Dio ogni tanto si assopisce: sarà quel che sarà. Vivere è più facile, ad occhi chiusi. Se capaci come lui, dunque, ci si può forse dimenticare come scrivere? E' come andare in bicicletta. Può passare il tempo, nel mentre, ma gli arti sanno da sé dove andare – le mani sul manubrio, i piedi sui pedali – e l'equilibrio, provvidenziale, ritorna dal nulla. Così è il talento di Ammaniti. Le dita ricordano su quale tasto battere, quale corda ferita sfiorare, e l'ispirazione arriva, come una parola sulla punta della lingua; un tecnicismo che, a un esame importante, ti salva. Eppure, durante il ripasso, al mattino, ci sfuggiva. Eppure ci eravamo già dati per vinti, e invece... Bastava prepararsi a un nuovo viaggio, ma verso casa. La pagina bianca e il silenzio, sconfitti tornando in Sicilia. Al metaforico punto di partenza. Il mio voto: ★★★★ Il mio consiglio musicale: The Beatles – Blackbird

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