Antonia, di Ferdinando Cito Filomarino. Con Linda Caridi, Filippo Dini, Alessio Praticò, Luca Lo Monaco, Perla Ambrosini, Hervé Barmasse. A Milano al cinema Mexico.
Biopic austero e assai poco convenzionale della poetessa Antonia Pozzi, vissuta a Milano entre deux guerres e morta suicida all’Abbazia di Chiaravalle. Al suo primo lungometraggio, Ferdinando Cito Filomarino fa clamorosamente centro, girando un film austero e pudico, di eleganza somma ma senza smancerie. Un film che ci racconta Antonia Pozzi senza pretendere di svelarcene il mistero. Da non perdere. Voto 8
Certo, un giovin signore di trent’anni e qualcosa discendente per un ramo da aristocratica famiglia napoletana e dall’altro dai milanesi Visconti di Modrone, e dunque apparentato al più famoso dei Visconti novecenteschi, Luchino, se si mette a fare cinema un bel po’ di curiosità e di attesa la crea. Suscitando magari i pregiudizi, per non dir peggio, dei tanti populisti del pubblico e della critica, di quanti hanno in odio la cosiddetta casta. Come se nascere bene e crescere meglio (Ferdinando Cito Filomarino ha fatto ottimi studi e pratiche registiche internazionali e con un suo corto ha vinto un premio a Locarno) fosse una colpa, se mai un fortuna, e anche un merito, se la fortuna la sai usare adeguatamente. Vedendo Antonia, biopic a modo suo, assai lontano per aristocratico approccio e distacco da tante produzioni analoghe di cinema e televisione, della poetessa milanese Antonia Pozzi, si vede subito che il giovin signore un qualcosa da Luchino ha preso. Era dai tempi di Il conformista di Bernardo Bertolucci che non si vedeva in un film una ricostruzione così credibile, perfetta e insieme non azzimata ma pulsante, viva degli anni Trenta, in questo caso dei Trenta nella Milano colta, borghese e nobile entre deux guerres, una ricostruzione dove non si sbaglia niente, non solo le tappezzerie-mobili-decori vari e gli ambienti, ma la stessa fisionomia e carnalità (o non carnalità) dei personaggi, le posture, gli sguardi, il tono di voce. Evitando, sempre, l’orrendo effetto sepolcrale-museale di tanti period movie nei quali tutto è finto, ogni costume come appena arrivato dalla sartoria, senza che si vedano mai i segni della vita, della realtà, della storia. Antonia è prima di tutto una lezione di stile ed eleganza vera. Quelle case, quei giardini (i meravigliosi giardini nascosti di Milano) respirano quanto i personaggi che ci si muovono dentro, e già questo è, nel nostro cinema così plebeo, un miracolo. Antonia Pozzi nasce nel 1912, muore suicida, ingerendo un’overdose di sonniferi che le erano stati prescritti, nel prato dell’abbazia di Chiaravalle nel 1938. 26 anni di tormenti, incertezze, abissi interiori, senza mai però tragedie esteriori e chissà quali collassi psichici, piuttosto un’esistenza da perenne non conciliata con il mondo, e per motivi assai difficili da individuare. Solo dopo la sua morte il padre pubblicherà le sue poesie, che ne faranno una delle poetesse di rango del nostro Novecento, grazie anche a quanto di lei scriverà Eugenio Montale. In vita sembra una ragazza qualunque, talentuosa certo, ottima studentessa e poi ottima insegnante, ma con una irriducibile differenza dentro. Una figura elusiva, e il bello del film di Cito Filomarino è che ne rispetta il mistero, non sforzandosi mai di dare una spiegazione psicologistica o sociologistica al malessere di Antonia, mostrandocelo pudicamente, e basta. Con tocchi lievi e allusioni, con molti silenzi e scarne parole, si pensi solo a come il regista risolve la disperazione di Antonia che, dietro una vetrata liberty, sente il colloquio con cui il padre liquida ogni possibilità di una relazione tra lei e un suo insegnante. Succederà ancora, perché il destino di Antonia sembra quello di non essere mai riamata. Intorno a lei nomi che saranno famosi, Remo Cantoni, il maître à penser Antonio Banfi, il futuro poeta Vittorio Sereni. Eppure Antonia non riesce a farsi prendere sul serio e a pubblicare le sue poesie, restando un’incompresa, un’inconclusa, un’incompiuta. Non c’è mai dramma, né tantomeno patetismo in questo film, che sceglie l’osservazione partecipe ma da lontano del suo personaggio. Il tono dominante è quello del rigore, e del pudore. Si tende alla sottrazione, a rischio di sfiorare l’anoressia espressiva. La vita di Antonia Pozzi ci scorre davanti come implosa, più mostrata che rappresentata, in un understatement molto milanese, molto lombardo, poco italiano. Qui non si urla, non si esagera, non si piange, neanche quando si decide di ammazzarsi. Una milanesità che Cito Filomarino riesce a trasmettere perché evidentemente la conosce bene. Tutto è credibile. Quella casa a Pasturo, in Valsassina. Quell’amore così aristo-milanese per le montagne, per l’arrampicata (lo sport più bello e nobile del mondo). Quelle passeggiate nelle campagne di Lombardia dove ti sembra di sentire scorrere l’acqua delle rogge (e mi vengono in mente certe scene analoghe di La monaca di Monza, film di un altro regista di casa, Eriprando Visconti). Si allude pudicamente anche a una possibile attrazione omosessuale di Antonia per l’amica Teresita, ma non aspettatevi scene calde, non ce ne sono. La protagonista resta fino alla fine un mistero, un inafferrabile ectoplasma. Film anomalo, fin troppo trattenuto per la media del nostro cinema. Prodotto (anche) da Luca Guadagnino. Sicuramente un notevolissimo esordio, che però potrebbe convincere più all’estero che in casa nostra. Ma spero di sbagliarmi.