Andando un po' a ritroso nel tempo nel tentativo di recuperare qualche pellicola sfuggita alla mia attenzione, sono capitato dalle parti della Gran Bretagna, cosa che ultimamente sta capitando abbastanza spesso. Devo ammettere che il salto nel passato non è stato dei più lunghi, né profondi: mi è bastato scivolare fino al 2012 nella lista degli horror da recuperare, per venir rapito da un titolo sicuramente inusuale come Berberian Sound Studio, film del regista inglese Peter Strickland.
Anni '70: Gilderoy è un tecnico del suono inglese arrivato in Italia per per ultimare il mixaggio dell'ultimo film del regista Giancarlo Santini, un horror di serie B che ricorda non poco i lavori di Argento e Bava. L'aria che si respira però al Berberian Sound Studio non è delle migliori: il regista Santini appare come un idiota incapace, il produttore Francesco Coraggio è un despota volgare, la professionalità sembra latitare e lentamente il piccolo e timido Gilderoy sembra precipitare in un vortice di follia.
Berberian Sound Studio non è un horror, Berberian Sound Studio non è un thriller, a conti fatti Berberian Sound Studio non saprei neanche come definirlo. Una produzione inglese girata in Italia con cast quasi esclusivamente italiano, una pellicola sperimentale, un dramma onirico, un'opera surreale: questo sì. Eppure non avrei altre parole per definire Berberian Sound Studio. Sinceramente non vorrei neanche parlare di questo film: non mi è piaciuto, l'ho trovato presuntuoso, pretestuoso e senza senso. Eppure mi ha dato alcuni elementi su cui riflettere e a distanza di qualche giorno posso dire che la visione di un film inutile come questo non è stata assolutamente inutile.
Sì, film inutile: perché una pellicola può essere esteticamente perfetta, le musiche possono essere grandiose, il comparto sonoro da capogiro ma se alla fine non c'è niente da raccontare, allora il senso generale di un'opera va a farsi benedire. Attenzione: non parlo di stilemi abusati, di cliché o della mancanza di originalità in una storia. Parlo, invece, di incompiutezza, di vicoli ciechi, di ostentazione. Perché Peter Strickland è bravo e il suo film è esteticamente ineccepibile, ma cosa conta l'estetica se è la storia a latitare, se quella storia non riesce ad andare da nessuna parte? Troppo facile così, troppo facile prendere una direzione e non arrivare in nessun dove, cadere nella confusione più totale e chiamarla autorialità. Perché questo è stato per me Berberian Sound Studio: una pellicola con spunti geniali che procede lenta e noiosa, fingendo di voler arrivare al punto ma confondendo le carte in tavola finché a confondersi sono anche spettatori e regista. Ed è a quel punto che tutti capiscono che da dire non c'era nulla e che BSS non è altro che un esercizio di stile.
A conti fatti la storia è interessante ma ancor di più lo è il modo di raccontarla: un inglese timido e freddo con nessun legame affettivo se non quello con la madre arriva in Italia per partecipare al suo primo "horror movie". Il mondo che si trova di fronte, quel microcosmo confuso, caloroso e volgare in cui viene catapultato non è certamente niente a cui Gilderoy avrebbe mai potuto essere preparato: un mondo in cui per sopravvivere bisogna essere lupi, non pecore. Attorno a lui tanti volti e facce ma, soprattutto, suoni. Perché è attraverso i suoni che il film (nel film) viene raccontato: dell'horror diretto da Santini noi non vediamo un solo fotogramma eppure ci sembra di conoscerlo alla perfezione perché ne conosciamo suoni, rumori, urla e molte battute. Ovviamente questo stile di narrazione è dovuto più che ha una scelta alla mancanza di budget, eppure è ovvio che funzioni. A non funzionare è la storia in se perché, effettivamente, non esiste. Persino il colpo di scena (sì, c'è anche un colpo di scena) che ci fa precipitare in una dimensione onirica sembra messo lì perché fa figo ma senza una funzione oggettiva. E allora che senso ha girare un film se non si ha nulla da dire? Che senso ha mettere in mostra un talento oggettivo se non si ha idea di dove si voglia andare e perché?
Strickland sembra voler omaggiare in cinema di genere italiano anni '60-'70. Lo vuole fare girando un film nel film, in cui persino i titoli di testa (bellissimi) coincidono, oppure svelando i vecchi trucchi artigianali che hanno fatto storia e reso grande un cinema agli antipodi di quello inglese. Eppure Strickland sembra guardare con disprezzo non solo un certo modo di fare film ma anche il diverso approccio economico/culturale. Lo stesso horror a cui Gilderoy lavora non è altro che un prodotto inutile e squallido spacciato per "arte" da un regista ovviamente incapace. L'omaggio allora lascia il posto ad una critica per nulla velata fatta su basi inesistenti e su cliché inaccettabili. Al di là di questo, è ovvio un certo modo lynchiano di concepire il cinema, non solo estetico ma anche concettuale. I parallelismi che si potrebbero fare tra Berberian Sound Studio e INLAND EMPIRE sono tantissimi ma la differenza più importante tra i due film sta nella regia: Lynch è un artista visivo che prova a mettere in scena le meccaniche del sogno, Gilderoy è un regista apparentemente più classico che punta tutto sul sonoro ma non sa ovviamente che pesci prendere e via via pare assomigliare di più ad un Alex Infascelli qualsiasi.
Alla fine Berberian Sound Studio è un film noioso, senza senso, a tratti offensivo verso il cinema di genere italiano. A voler fare gli intellettualoidi si perde di vista il senso ultimo del cinema, che secondo me resta quello di coniugare una storia all'aspetto sonoro/visivo della stessa. Invece BSS sembrerebbe un mero esercizio di stile di un regista con mania di grandezza che una storia non sa scriverla o, più verosimilmente, ha fatto il passo più lungo della gamba. Un vero peccato considerato lo stile interessante, il sonoro di altissimo livello, l'ottima fotografia, le bellissime musiche dei Broadcast e un grande (come sempre) Toby Jones affiancato da un bravo Cosimo Fusco.