[Recensione] Big Eyes (di Tim Burton, 2014)

Creato il 14 gennaio 2015 da Frank_romantico @Combinazione_C

Quest'anno cinematografico sembrava dovesse partire con il botto. C'erano una serie di film che aspettavo con ansia, film che non ved(ev)o l'ora di andare a vedere, al di la di attori o registi, solo per l'amore che credo ogni appassionato di cinema provi per le storie.
Tra questi film, sicuramente, c'era Big Eyes di un Tim Burton che non azzecca un film diciamo dal lontano 2007, quando uscì il minore Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street, parentesi musical nella carriera di un regista che, pur avendo mantenuto sempre un suo riconoscibilissimo stile, ha provato strade di genere sempre diverse. Probabilmente strade sbagliate. Lo devo ammettere, ad un certo punto della mia vita ho iniziato ad odiare Tim Burton. Ho iniziato ad odiare, ad esempio, il suo modo ossessivo compulsivo di avvicinarsi al cinema, l'incomprensibile matrimonio artistico con un Johnny Depp sempre più macchiettistico, l'incapacità di fare autocritica e di mettere in dubbio un percorso che si stava rivelando sempre più un vicolo cieco. Quest'odio mi ha portato a trascurare le ultime uscite cinematografiche del nostro, quel tanto bistrattato Dark Shadows e il riciclato Frankenweenie (di cui ho visto solo alcune scene) eppure non mi ha tenuto lontano dal cinema e da una pellicola come Big Eyes, la seconda incursione di Burton nel mondo del biopic. La prima è stata nel 1994 con Ed Wood, uno dei suoi film più riusciti e allo stesso tempo più lontano dal modo tipicamente burtoniano di fare cinema. Apparentemente. E ancora più apparentemente Big Eyes non è un film di Burton o, almeno, così hanno detto le stesse persone che fino a ieri criticavano tanto il regista per essere stato fin troppo burtoniano nei suoi film precedenti. Bah.

Big Eyes è la vera storia di Margaret Keane, pittrice degli anni cinquanta e sessanta, e del marito Walter Keane, ritenuto per anni il vero autore delle opere della moglie.
Biopic puro, che fa del punto di vista di Margaret la direzione da seguire per svelare una delle più grandi truffe dell'arte pop anni '60. Che si bilancia attraverso le due figure principali, Margaret stessa e il (secondo) marito Walter, due differenti piatti della bilancia ma certamente non l'incarnazione di giusto e sbagliato come potrebbe apparentemente sembrare. La pittrice infatti non è una povera vittima subordinata ad un marito prevaricatore ma l'iniziale complice (truffato a sua volta) di un imbonitore, l'elemento debole della coppia, incapace di reagire ma non di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Margaret, con un passato di violenze psicologiche (mai raccontate nel film, ma lasciate intuire) che viene a patti con il mondo, incapace di provvedere a se stessa e bisognosa di cure e attenzioni. Quelle che è in grado di darle lo spigliato Walter, intrappolato in una immensa bugia, che vive di sotterfugi, parole e cliché.  La naturale accondiscendenza della pittrice è l'unica sua possibilità per non mandare in crisi una realtà finta ma tranquilla: la sua vita è un quadro che lei stessa a contribuito a dipingere, ma senza anima o passione. La semplice e flebile speranza che le cose possano andare nel verso giusto, per una volta, tradita dal fatto che non succede mai.

In Big Eyes non ci sono personaggi positivi. Tim Burton non ha alcuna intenzione, almeno inizialmente, di dar ragione o torto a  qualcuno. Certo, Walter di positivo non ha nulla ma neanche il personaggio di Margaret sembra volersi attirare le simpatie del pubblico. Forse è tutta qui la piattezza che molti hanno attribuito a questo film: la protagonista non è novella Edward, non incarna la poetica del diverso tanta cara al regista, non ci sono sprazzi di genialità e stranezza nella sua esistenza. La sua vita non è una favola dark. Margaret è invece una persona come tante, con i suoi pregi e i suoi difetti, capace di esprimere la sua essenza attraverso dipinti a metà strada tra il pop e il kitsch. Opere che io amo e vorrei tanto tenere sulle pareti di casa ma che non definirei propriamente capolavori, né arte vera e propria. Non c'è nulla di fantastico nella vita della protagonista di Big Eyes. Lo stesso successo della sua arte è un artificio, una finzione non troppo lontana da quella cinematografica: Walter, pur non essendo l'autore dei quadri, è comunque il vero artefice del loro successo. Con tutta la sua prepotenza scenica, il suo essere sopra le righe, il suo spirito da venditore e la sua faccia di culo.  Un uomo da odiare ma di cui non si può dispregiare l'abilità. 

L'ultimo film di Tim Burton è ovviamente un omaggio: il regista non ha mai fatto mistero di amare Margaret Keane e di rispecchiarsi nel suo modo di dipingere. In effetti, se la pittrice americana è divenuto simbolo pop "commerciale" e ha inaugurato l'arte pop a livello industriale fatta di cartoline, poster e della copia della copia dell'opera d'arte, Burton è stato capace di intrappolare l'arte in un movimento pop fatto di colori pastello e di eccentricità adatta al grande pubblico, svezzando l'adulto attraverso favole oscure e personaggi che se dipinti avrebbero avuto grandi occhioni, tristi o pieni di magia.  Proprio per questo credo che nessun'altro avrebbe potuto portare sullo schermo un film come Big Eyes, una pellicola che abbassa i toni ma mantiene vivi elementi imprescindibili della poetica del nostro: la realtà che si fa arte e l'arte che si fa realtà in una grande illusione collettiva, l'elemento fumettistic/cartoonesco (Margaret che comincia a vedere la gente vestire i suoi grandi occhi dipinti o il grottesco della scena in tribunale)  il pop nei colori pastello della fotografia di Bruno Delbonnel, le immancabili musiche di Danny Elfman. E poi immagino il risultato se solo fosse stato possibile girare tutto su pellicola 35 mm come inizialmente era intenzione del regista. 
Quel che penso è che, alla fine, Big Eyes sia la trasfigurazione cinematografica del cinema di Tim Burton. Seppur non privo di difetti (anzi), forse il film più sincero da sette anni a questa parte. Che si tratti solo di una parentesi è probabile, visto l'annunciata uscita di Beetlejuice 2, ma non posso negare di aver apprezzato le scelte fatto in questo film, complici del talento di due attori d'eccezione: una Amy Adams che dimostra tutta la propria duttilità e un Christoph Waltz immenso, giustamente sopra le righe, da odiare per via del suo personaggio ma da amare perché... un attore così va amato, punto. Un po' come io amo e odio Tim Burton, l'unico regista che però, in un modo o nell'altro, non riesce a lasciarmi indifferente.  

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