Abbastanza disinteressato alle diatribe e alle lotte interne tra i due coniugi – lei che dipinge ed è l’artista (insomma) vera della coppia, lui che si appropria dei lavori della consorte, ci mette la sua firma e li piazza sul mercato come suoi – Tim Burton dà l’impressione di raccontare con una certa malavoglia l’ovvia storia (ispirata a fatti veri verissimi e alle memorie dell’ancora viva e artisticamente combattente Margaret Keane), accendendosi solo, oltre che per i sopraddetti occhioni, per la California anni Cinquanta in cui i fatti si svolgono. Big Eyes è un esercizio abbastanza estenuato e celibe e sterile di stile e di vari manierismi in cui il regista si conferma, più che un narratore (temo non lo sia mai stato), un metteur en scène nel senso più letterale. Uno Zeffirelli solo un bel po’ più freak che si diverte nell’occasione a rifare maniacalmente quelle folli residenze West Coast dei Fifties, di un razionalismo un po’ sbilenco e già contaminato da ansie proto-new age, tutte vetrate e trasparenze a ricevere in un’ebbrezza panica l’abbraccio del sole e della luce, e le piscine ove esibire la sanità e la santità del corpo nudo. E i vestiti, e gli arredi, e signore che sembrano uscite da un Douglas Sirk o dall’Alfred Hitchcock di La donna che visse due volte. TB veste e arreda, come legioni di manieristi del cinema prima di lui (e quanti ne abbiamo avuti anche in Italia), ma si guarda bene dal buttarsi più di tanto nella narrazione, senza mai riuscire a coinvolgerci davvero. Sarà che non è così facile appassionarci a questa lagna, che racconta i Keane sposando in toto il punto di vista di lei, la Margaret espropriata e conculcata e vittima del bieco maschilista al suo fianco. Però, santo cielo, gli uomini sbagliati la Margaret se li tira addosso come una calamita, una vera rabdomante di mariti sbagliati. La vediamo difatti sposa-ragazza con bimba scappare dal primo consorte, rifugiarsi a San Francisco, tirar faticosamente la fine del mese con un impieguccio in un’aziendina di mobili, fino all’incontro fatale con lui, Walter Keane. Il quale ai mercatini spaccia modeste vedute di Parigi a uso dei salottini delle sciure Pine californiane, millantando di averci soggiornato, a Parigi, e di averci respirato l’arte e appreso ogni suo segreto. Mica vero, ovvio, ma la boccalona Margaret ci crede, ci casca, si innamora di quel bellimbusto fanfarone, lo sposa. Fanfarone che ha però subito capito il potenziale commerciale dei bambini dagli enormi occhi che la signora sforna a ripetizione. Sarà lui a lanciarli, a trovare un posto per esporli e i primi compratori, a trasformarli in una clamorosa success story. Sempre appropriandosi del lavoro della moglie, spacciandolo come suo, e con la sua firma, perché “cara, chi mai ti conosce? nessuno li comprerebbe se sapessero che li hai dipinti tu, i soldi li spendono perché pensano siano miei”. Dettaglio: tra i primi ad apprezzare quei ritratti di pargoli dai big eyes c’è un italiano, un giovane Olivetti (pardon, non ricordo il nome) della dinastia delle macchine da scrivere, che in italiano parla nella VO del film e in italiano interloquisce con le bellissime ragazze che l’accompagnano, e vien da pensare che in quei tempi c’era un’Italia ricca, chic e cosmopolita, non provinciale, colta, che si spostava da una parte all’altra del globo mescolandosi alla bohème e alle frange artistiche, della quale oggi non è rimasta traccia. Il resto della vicenda dei Keane è il successo sempre maggiore, e ormai travolgente (tra i clienti si vede Joan Crawford), e in parallelo la progressiva insofferenza di Margaret verso quel marito-padrone-negriero che la mette sotto alla catena di montaggio. Fino alla ribellione, alle minacce di lui a lei, alla fuga, a una nuova vita. La debolezza sta nella programmaticità da manifesto-dalla-parte-delle-donne, nella mancanza di ombre e chiariscuri. Il meglio è, anzi sarebbe potuto essere, l’aggroviagliato, contorto e torbido legame tra coniugi. Solo che Tim Burton, lui con i suoi sceneggiatori, non è Roman Polanski, non è autore da sfumatura, non scava, per lui il Male è solo il pretesto o l’occasione per uno spettacolo di facili, immediati e esteriori orrori. È sempre stato così, lo è anche stavolta, si pensi alla scena di Margaret intrappolata con la figlia in una stanza mentre il perfido marito cerca di appiccare un incendio buttando fiammiferi dalla serratura. Horror, che è altra cosa dalla rappresentazioni degli abissi quotidiani. A portare il film sul parodistico e l’eccesso è anche la tremenda interpretazione di Christoph Waltz, completamente fuori registro, la peggiore perfomance della sua carriera americana, tutta un ghigno e smorfie da guitto. E non si capisce se sia colpa sua o sia stato Burton a volerlo così. Per fortuna c’è Amy Adams, parecchio brava, come sempre (una delle quattro attrici oggi al vertice, essendo le altre Scarlett Johansson, Jessica Chastain e Jennifer Lawrence), fresca vincitrice del Golden Globe come besta actress nella categoria Comedy. Alla fine si resta con il dubbio che dei due il vero genio (del marketing) fosse il vituperato Walter Keane. Il quale, anticipando la riproduzione seriale dell’arte secondo Warhol, di quei bambini dallo sguardo alterato aveva fatto, con la sua instancabile attività promozionale, un’icona. Un marchio buono a vendere prodotti e merci di vario tipo. Sì, l’artista era lei, ma senza di lui avrebbe raggiunto il successo planetario?
Tim Burton