Recensione: BIG EYES. Un Tim Burton guardabile, niente di più

Creato il 13 gennaio 2015 da Luigilocatelli

Big Eyes, un film di Tim Burton. Scritto da Larry Karaszewski e Scott Alexander. Con Amy Adams, Christoph Waltz, Terence Stamp, Jason Schwartzman, Danny Huston.Incredibile, un film  di Tom Burton senza Johnny Depp. Un film che non è solo una galleria di freaks, e nel quale il regista torna, bene o male, a raccontare una storia. Ovvero lo strano caso di Margaret Keane, pittrice negli anni ’50 di bambini dagli occhi enormi, e del marito Walter che la sfruttò spacciandone le opere come proprie. Storia vera, ma non così appassionante. Con un Burton interessato soprattutto agli ambienti, al décor, agli stili della California di allora. Voto 6Un Tim Burton finalmente decente, finalmente guardabile, dopo l’indecente Dark Shadows e altra roba discutibile. Il che non vuol dire che questo Big Eyes sia gran cosa. Però ci racconta bene o male una storia, si fa seguire e capire, non è solo il delirio visual-kitsch, la baracconata autoreferenziale, la galleria di mostri nei quali s’era arrotolato e compiaciuto il nostro dal 2000 in poi. Se non è proprio il caso di parlare di un autore ritrovato, di rinascita e risalita dagli abissi, va però sottolineato l’arresto di quella che pareva una deriva incontenibile. Un film che sembra il frutto di una resipiscenza, di un volontario ritorno dalle zone prossime alla follia (filmica), e che segna, se non un riscatto, se non un punto di svolta, almeno lo stop nella corsa al peggio. Resipiscenza marcata anche dall’assenza, finalmente!, di Johnny Depp, complice e sodale di Mr. Burton in parecchie nefandezze. Cogliamo come s’usa dire i segnali postivi e accontentiamoci, senza troppo pretendere, di questa parabola veterofemminista che sarebbe andata benissimo negli anni Settanta e oggi suona un filo sdata. Venendoci a raccontare (ancora!) di una donna conculcata, sfruttata, umiliata, oppressa, espropriata da un maschio sopraffattore, e della sua – ebbene sì – presa di coscienza e successiva rivolta indipendentista dalla sovranità maritale. Edificante e prevedibile cone una fiction agiografica di Rai Uno, tant’è che ci si chiede che cosa di quella faccenda abbia attratto Tim Burton al punto da indurlo a girarci sopra un film così diverso dalle sue ultime cinedepravazioni e così stranamentre composto rispetto alle sue pregresse cattive abitudini e attitudini. Che è anche un modo per chiedersi quello che tanti, disperatamente, si chiedono in vari anfratti del web: ma TB è ancora lui? o con questo Big Eyes ha tradito se stesso allineandosi al cinema bon ton e mainstream? Massì che è ancora lui, non disperate voi che avete amato perfino Dark Shadows e che seguireste il vostro idolo-pifferaio perfino nei peggio gironi dell’inferno cinematografico (il virus del burtonismo è assai diffuso purtroppo). Lo si vede da come il nostro Autore si ostina a inquadrare gli allarmanti occhioni del titolo, quelli dei bambini ritratti in dosi massicce dalla factory Keane – il marito Walter e la moglie Margaret -, quadri che tra anni Cinquanta e primi Sessanta conquistarono i più danarosi collezionisti del mondo, inondarono gallerie, ebbero un immenso quanto indecifrabile successo. Pittura che oggi ci appare puro kitsch, di miserrima qualità – ah, come aveva ragione a demolirla il velenoso critico del New York Times, quello che nel film porta la faccia di Terence Stamp – ma che un po’ ce la fa ancora a turbarci con quegli sguardi da piccoli mostri alieni, come spalancati su abissi inconoscibili e massimamente inquietanti, e già presaghi della robottistica manga che un paio di decenni dopo avrebbe cominciato a sommergerci. O i manga han preso dalle opere dei Keane?
Abbastanza disinteressato alle diatribe e alle lotte interne tra i due coniugi – lei che dipinge ed è l’artista (insomma) vera della coppia, lui che si appropria dei lavori della consorte, ci mette la sua firma e li piazza sul mercato come suoi – Tim Burton dà l’impressione di raccontare con una certa malavoglia l’ovvia storia (ispirata a fatti veri verissimi e alle memorie dell’ancora viva e artisticamente combattente Margaret Keane), accendendosi solo, oltre che per i sopraddetti occhioni, per la California anni Cinquanta in cui i fatti si svolgono. Big Eyes è un esercizio abbastanza estenuato e celibe e sterile di stile e di vari manierismi in cui il regista si conferma, più che un narratore (temo non lo sia mai stato), un metteur en scène nel senso più letterale. Uno Zeffirelli solo un bel po’ più freak che si diverte nell’occasione a rifare maniacalmente quelle folli residenze West Coast dei Fifties, di un razionalismo un po’ sbilenco e già contaminato da ansie proto-new age, tutte vetrate e trasparenze a ricevere in un’ebbrezza panica l’abbraccio del sole e della luce, e le piscine ove esibire la sanità e la santità del corpo nudo. E i vestiti, e gli arredi, e signore che sembrano uscite da un Douglas Sirk o dall’Alfred Hitchcock di La donna che visse due volte. TB veste e arreda, come legioni di manieristi del cinema prima di lui (e quanti ne abbiamo avuti anche in Italia), ma si guarda bene dal buttarsi più di tanto nella narrazione, senza mai riuscire a coinvolgerci davvero. Sarà che non è così facile appassionarci a questa lagna, che racconta i Keane sposando in toto il punto di vista di lei, la Margaret espropriata e conculcata e vittima del bieco maschilista al suo fianco. Però, santo cielo, gli uomini sbagliati la Margaret se li tira addosso come una calamita, una vera rabdomante di mariti sbagliati. La vediamo difatti sposa-ragazza con bimba scappare dal primo consorte, rifugiarsi a San Francisco, tirar faticosamente la fine del mese con un impieguccio in un’aziendina di mobili, fino all’incontro fatale con lui, Walter Keane. Il quale ai mercatini spaccia modeste vedute di Parigi a uso dei salottini delle sciure Pine californiane, millantando di averci soggiornato, a Parigi, e di averci respirato l’arte e appreso ogni suo segreto. Mica vero, ovvio, ma la boccalona Margaret ci crede, ci casca, si innamora di quel bellimbusto fanfarone, lo sposa. Fanfarone che ha però subito capito il potenziale commerciale dei bambini dagli enormi occhi che la signora sforna a ripetizione. Sarà lui a lanciarli, a trovare un posto per esporli e i primi compratori, a trasformarli in una clamorosa success story. Sempre appropriandosi del lavoro della moglie, spacciandolo come suo, e con la sua firma, perché “cara, chi mai ti conosce? nessuno li comprerebbe se sapessero che li hai dipinti tu, i soldi li spendono perché pensano siano miei”. Dettaglio: tra i primi ad apprezzare quei ritratti di pargoli dai big eyes c’è un italiano, un giovane Olivetti (pardon, non ricordo il nome) della dinastia delle macchine da scrivere, che in italiano parla nella VO del film e in italiano interloquisce con le bellissime ragazze che l’accompagnano, e vien da pensare che in quei tempi c’era un’Italia ricca, chic e cosmopolita, non provinciale, colta, che si spostava da una parte all’altra del globo mescolandosi alla bohème e alle frange artistiche, della quale oggi non è rimasta traccia. Il resto della vicenda dei Keane è il successo sempre maggiore, e ormai travolgente (tra i clienti si vede Joan Crawford), e in parallelo la progressiva insofferenza di Margaret verso quel marito-padrone-negriero che la mette sotto alla catena di montaggio. Fino alla ribellione, alle minacce di lui a lei, alla fuga, a una nuova vita. La debolezza sta nella programmaticità da manifesto-dalla-parte-delle-donne, nella mancanza di ombre e chiariscuri. Il meglio è, anzi sarebbe potuto essere, l’aggroviagliato, contorto e torbido legame tra coniugi. Solo che Tim Burton, lui con i suoi sceneggiatori, non è Roman Polanski, non è autore da sfumatura, non scava, per lui il Male è solo il pretesto o l’occasione per uno spettacolo di facili, immediati e esteriori orrori. È sempre stato così, lo è anche stavolta, si pensi alla scena di Margaret intrappolata con la figlia in una stanza mentre il perfido marito cerca di appiccare un incendio buttando fiammiferi dalla serratura. Horror, che è altra cosa dalla rappresentazioni degli abissi quotidiani. A portare il film sul parodistico e l’eccesso è anche la tremenda interpretazione di Christoph Waltz, completamente fuori registro, la peggiore perfomance della sua carriera americana, tutta un ghigno e smorfie da guitto. E non si capisce se sia colpa sua o sia stato Burton a volerlo così. Per fortuna c’è Amy Adams, parecchio brava, come sempre (una delle quattro attrici oggi al vertice, essendo le altre Scarlett Johansson, Jessica Chastain e Jennifer Lawrence), fresca vincitrice del Golden Globe come besta actress nella categoria Comedy. Alla fine si resta con il dubbio che dei due il vero genio (del marketing) fosse il vituperato Walter Keane. Il quale, anticipando la riproduzione seriale dell’arte secondo Warhol, di quei bambini dallo sguardo alterato aveva fatto, con la sua instancabile attività promozionale, un’icona. Un marchio buono a vendere prodotti e merci di vario tipo. Sì, l’artista era lei, ma senza di lui avrebbe raggiunto il successo planetario?

Tim Burton


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