Birdman o (l’imprevedibile virtù dell’ignoranza). Un film di Alejandro González Iñárritu. Con Michael Keaton, Naomi Watts, Edward Norton, Emma Stone, Andrea Riseborough, Amy Ryan, Zach Galifianakis, Lindsay Duncan.
Un attore diventato famoso con un supereroe di nome Birdman e poi dimenticato, cerca di rilanciarsi autoproducendosi e interpretando a Broadway un play da Raymond Carver. Come in ogni film sul backstage e la sera della prima, ecco crisi e dubbi del protagonista, e intorno a lui un coro di varia umanità. Girato virtuosisticamente in lunghi piani sequenza. Attori tutti eccellenti (però Edward Norton con una marcia in più). Michael Keaton è il protagonista, e non si può non pensare al suo Batman passato. Vita e rappresentazione, realtà e finzione intrecciati nel gran gioco del teatro. Però con una solida traccia di orginalità rispetto alla convenzione. Voto 8+
Quando lo si vide in prima mondiale a Venezia lo scorso agosto – era il film d’apertura – ssi capì subito che Birdman, bellissimo, avrebbe fatto molta strada. Difatti eccolo adesso candidato a svariati Oscar, compresi i più importanti, anche se domenia prossima se la dovrà vedere con un antagonista come Boyhood (e c’è sempre la possibile sorpresa di American Sniper). Solo la giuria di Venezia ebbe l’insipienza di non dargli neanche uno straccio di premio, pensare che nel palmarès trovò spazio perfino per il pessimo turco Sivas e il non sublime iraniano Ghesseha. Adesso che finalmente è nei nostri cinema, non perdetevelo. Di Iñarritu mi era piaciuto molto il precedente Biutiful con Javier Bardem, il primo, se ricordo bene, da lui girato senza la collaborazione alla sceneggiatura di Guillermo Arriaga, sodale nella famosa trilogia delle vite-che-si-incrociano AmoresPerros, 21 grammi, Babel. Ai moltissimi che avevano arricciato il naso Biutiful era sembrato invece il prodotto di un regista ormai dimezzato, irrimediabilmente infragilito, mutilato dall’assenza di Arriaga. Non la pensavo così, e Birdman me lo ha confermato. Un signor film, girato virtuosisticamente in blocchi costituiti ciascuno da un solo piano sequenza realizzato con l’handycam, e l’abilità in fase di editing è tale che si ha l’impressione che tutti i 110 minuti siano in un unico take. Per carità, di virtuosismi del genere se ne son già visti un bel po’, penso a Arca russa di Sokurov, e da soli non stabiliscono la caratura alta di un’opera, ci mancherebbe. Qui però c’è ben altro. Dialoghi davvero americani, da commedia americana, intendo a velocità pazzesca da ping pong, e a chiudere spesso punchline assai azzeccate, che non ti annoi un secondo, mai. Poi la storia. Sì, già vista, sentita, però stavolta con una qualche variazione significativa rispetto alla tradizione. Diciamo che siamo dalle parti, anzi proprio dentro, il genere dietro-le-quinte-di-un-teatro-in-attesa-della-prima. Eva contro Eva di Mankiewicz, Nel bel mezzo di un gelido inverno di Branagh, soprattutto La sera della prima di Cassavetes, cui mi sembra Iñarritu abbia guardato assai consapevolmente, nell’esagitazione dei caratteri, nel modo di pedinarli e star loro addosso con la mdp, nell’orchestrare l’apporto di solisti e coro, perfino nell’uso qua e là di un soundtrack jazzistico (Cassavetes adorava il jazz, vedi Faces). Se in La sera della prima era un’attrice (Gena Rowlands), arrivata alla sua mezz’età, a cadere in ogni possibile crisi e panico prima del debutto, qui è un uomo, un cinquantenne, un attore, anzi una star, una celebrity. Uno che 25 anni prima era diventato un mito planetario interpretando il supereroe Birdman, uomo-uccello dalla maschera e dal costume piumati. Visto che a interpretarlo il regista ha chiamato, anzi ha ripescato, il Michael Keaton del primo, seminale Batman di Tim Burton, capirete che ogni allusione non è per niente casuale e che il cortocircuito tra vita e finzione c’è, eccome. Fino a diventare un materiale narrativo pefettamente congruo agli altri, aggiungendo al main character una complessità, uno strato in più. Ormai fuori dai giochi e dal grande giro, Riggan Thompson, questo il nome dell’attore oltre ogni viale del tramonto, decide di rilanciarsi autoproducendosi e autodirigendosi uno spettacolo a Broadway tratto dal Raymond Carver di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, tutta colpa, o merito, di un bigliettino di incoraggiamento che il parco scrittore gli aveva scritto dopo averlo visto in una recita studentesca. Naturamente le ansie si accumulano nella psiche non più così perfettamente funzionante di Riggan, il quale è convinto pure di avere un po’ dei superpoteri del suo personaggio passato (e lo vediamo lievitare mentre medita, spostare oggetti ecc., e non sappiamo se sia vero o una sua proiezione allucinatoria). Intorno le storie degli attori, dell’impresario, dei familiari. Insomma, il solito microcosmo del backstage. L’attrice che gli confessa di essere incinta di lui, la figlia ex tossica con cui continua ad avere scambi quantomeno perturbati, l’amico produttore sempre in ansia per questo o quel problema. Ma è l’altro maschio del cast a creare i guai maggiori. Narciso com’è, ruba spazio vitale a Riggan sulla scena (con un’erezione a un’anteprima che fa esplodere i social network), va a letto con la primattrice e tenta pure di scoparsi la figlia di Riggan. Quando, a due giorni dalla prima, Riggan scoprirà che i giornali non parlano che del suo rivale, la crisi arriva al massimo e tutto lo spettacolo sembra andare a puttane. Non sarà così. Molto altro succederà, fino a un finale aperto e ambiguo. Iñarritu usa le convenzioni del genere spremendone però ogni possibilità e rinfrescandole con una pratica assai contemporanea della macchina da presa e della corporalità degli attori. Quello che nella prima parte sembra un elemento di debolezza, i presunti super poteri di Riggan, diventano man mano il tratto narrativamente originale di Birdman. Suggerendo in Riggan una personalità dimezzata e sdoppiata tra passato e presente fino alla schizofrenia, immettendo qualche riflessione non stupida sulle relazioni e le opposizioni tra pop culture cui appartengono i supereroi e la cultura alta di scrittori come Carver (esemplare è il dialogo con la critica del New York Times interpretata da una strepitosa Linsay Duncan, l’attrice che abbiamo viso in Le Weekend). Soprattutto, quelle plurime vite in collisione che ci avevano incantato nella trilogia girata da Iñarritu con Arriaga qui le ritroviamo tutte incrociarsi nel personaggio di Riggan, e nel finale. Film che è anche entertainment, che guarda al publico largo riuscendo a essere anche personale, autoriale. Gran vehicle per i suoi interpreti, ovvio. Michael Keaton in primis. Emma Stone, finalmente meno pupa del solito. Ma a rubare la scena, come nelle prove a Broadway della pièce, è Edward Norton, travolgente e paraculissimo (nel senso migliore). Nota: il sottotitolo non è sbagliato, la parentesi arriva davvero dopo la congiunzione.