Recensione: CAROL. Non quel capolavoro di cui si (stra)parla

Creato il 05 gennaio 2016 da Luigilocatelli

Carol, un film di Todd Haynes. Da Patricia Highsmith. Con Cate Blanchett, Rooney Mara, Sarah Paulson. Al cinema da martedì 5 gennaio 2016.
Todd Haynes torna a raccontare un amore difficile nell’America anni Cinquanta, come in Lontano dal paradiso, senza però replicarne l’esito. Stavolta è la storia tra Carol, elegante signora alto-newyorkese, e la commessa Therese a scatenare il rigetto da parte del mondo in cui vivono. Ricostruzione visiva portentosa per verosimiglianza e bellezza. Ma è il racconto a non convincere, soprattutto nella vagolante parte finale. E però già se ne parla come di un’opera assoluta. Non lo è. Se mai, Carol è il film perfetto per rendere il lesbismo mainstream e definitivamente accettabile nei salotti e salottini d’Occidente. Voto 6 e mezzo
Sono circondato. Circondato dagli entusiasti di Carol, da quelli che è un capolavoro assoluto, da quelli che è il miglior film dell’anno anzi no, del decennio. Da quelli che gli han dato una valangata di nomination ai Golden Globes (e prossimamente si replicherà agli Oscar) e da quelli che a Cannes, dov’era in concorso, avevano gridato al miracolo folgorati come neanche a Medjugorje cadendo genuflessi di fronte a Cate Blanchett e twittando estatici in tutte le lingue del mondo. Circondato da quelli che stan battendo la grancassa prima ancora di averlo visto e da chi, prendendo sul serio Adèle che da Fazio ha detto di essersi molto commossa alle tribolazioni delle due protagoniste, già prepara la scorta di kleenex. Ecco, dissento. Se permettete, questo film di Todd Haynes non è una gran cosa rischia a questo punto per l’eccesso di elogi di diventare la cosa più sopravvalutato non solo dell’anno, ma degli anni Duemila tutti. Che se continua a questo ritmo forsennato la produzione di encomi da parte dei suoi adoranti finirò con l’odiarlo definitivamente, anche al di là dei suoi effettivi limiti. In my opinion, è stato la più cocente delusione dello scorso Cannes, dove pure di film al di sotto delle attese ce n’era stato più di uno (tanto per fare qualche titolo: Little Sister, Louder than Bomb, Il racconto dei racconti). E bene ha fatto la giuria presieduta dai tosti Coen Brothers, due che di cinema capiscono davvero, a tagliarlo fuori dai premi maggiori per dargliene alla fin fine solo uno secondario, e pure quello solo a metà, l’ex aequo a Rooney Mara come migliore attrice (in condominio con l’Emmanuelle Bercot di Mon Roi e ignorando clamorosamente la regina Cate Blanchett). Io, che ero stato respinto al primo press screening dalla folla mostruosa che si accalcava e che per entrare alla seconda proiezione mi ero fatto due ore e mezzo di fila, mi aspettavo molto, moltissimo, anche perché Todd Haynes mi aveva letteralmente stordito prima con Lontano dal paradiso e poi con la saga televisiva Mildred Pierce. Invece macché, ho dovuto prendere atto che Carol non è a quei livelli. Come se Haynes si autocitasse, riproponendo ancora una volta, e una volta di troppo e con una certa stanchezza, la storia da lui già molto raccontata di donne sole in lotta contro il mondo. Intendiamoci, Carol a tratti è bello assai (ma sarebbe più appropriato dire impeccabile, vista la maniacalità della messinscena), solo che l’ultima mezz’ora non la si regge proprio, e il film vagola senza mai trovare un finale, cercando in un esercizio di virtuosismo cerchiobottista di accontentare tutti. La storia è una storia di lesbismo – e ormai si rischia l’inflazione, diciamolo – tratta da The Price of Salt scritto sotto pseudonimo da Patricia Highsmith nel 1952, ambientata in un’America anni Cinquanta con alla Casa Bianca la coppia Mamie e Ike Eisenhower e i family values imperanti (mentre si dà la caccia al comunista in casa con il maccartismo). Tante le somiglianze con Lontano da paradiso. Anche là i Fifties americani, anche là un amore ostacolato dalle convenzioni sociali. Purtroppo il regista non ce la fa a replicare l’esito di quel film seminale, uno dei più innovativi della scorsa decade, e lo riproduce rischiando l’automanierismo, oltretutto con una materia narrativamente assai più confusa. Certo, il senso di Haynes per i Cinquanta resta altissimo, nessuno come lui sa ricreare non solo dettagli scenografici, costumi e decori, ma pure il clima e l’anima di un periodo che fu quello del massimo trionfo americano. La New York che vediamo in Carol è non solo di filologica perfezione visuale, ma è uno spaccato socio-antropologico preciso, pulsante e vivo. A convincere meno è quello che Haynes ci mette dentro, è quanto racconta. Carol è una signora della New York altoborghese, di algida eleganza ed elevato stile, feticizzata da un visone biondo che è, letteralmente, la sua seconda pelle. Mica per niente la interpreta Cate Blanchett, qui definitivamente armanizzata quale icona fashion, con il rischio di somigliare un po’ troppo alle mannequin d’epoca fotografate da Avedon o Penn su Vogue e Bazaar. Come se Blanchett già di suo non tendesse al regale-ieratico. Insomma, la Carol, mentre sta in una grande magazzino in cerca del giocattolo giusto da regalare all’adorata pargola per Natale, incrocia la vendeuse Therese, la puntuta e cerbiattesca Rooney Mara. Attrazione più o meno fatale. La Carol invita la Therese fuori, e cominciano le schermaglie del corteggiamento. Certo, prima che finiscano a letto, in una scena abbastanza goffa che neanche alla lontana è al livello di La vie d’Adèle, passa più di un’ora di film abbastanza estenuante (e l’impressione è che tra Blanchett e Mara non sia scattata la chemistry tra le lenzuola). Todd Haynes lavora di avvolgenti movimenti di macchina, suggerisce atmosfere che un tempo si sarebbero dette morbose e adesso non si può più, la tira per le lunghissime, a suggerire come l’amore tra donne fosse in quel tempo, in quegli anni, ancora un amore il cui nome non poteva essere prounciato (dixit Lord Alfred Douglas, il giovane amante di Oscar Wilde). Certo noi, che adesso siam sommersi un giorno sì e l’altro pure da gioiose foto sui social di lesbiche che si sposano e procreano e adottano, da tutta quella lungaggine restiamo un po’ annoiati. Non manca il côté (melo)drammatico, con Carol che sta divorziando dal marito carogna: il quale, sapendola lesbica, cerca di toglierle la figlia (sarà stato questo a far piangere Adèle?). Ecco, il film dovrebbe stopparsi a quel punto, con il trionfo della convenzione borghese sulla legge del desiderio. Come esige il paradigma del melodramma anni Cinquanta alla Sirk al quale da sempre Haynes si ispira. Invece no. Comincia da lì un estenuante balletto tra le due donne, in cui non capiamo più chi voglia chi e che cosa. Il tutto, immagino, per potere presentare al pubblico, in omaggio all’imperante politicamente corretto, una omosessualità femminile non sconfitta. Ma così facendo si va contro ogni buonsenso e ogni coerenza narrativa, fino a un finale sì aperto, ma che non sta né in cielo né in terra. Il film è anche fin troppo cauteloso e ovattato quando entrano in ballo la differenza di classe tra le due donne e il denaro. Quel regalo costoso di Carol a Therese, quella richiesta di Therese a Carol di prendere in hotel la camera più cara: sono indizi che potrebbero far pensare che in quella storia, in quel rapporto, intercorrano i soldi e l’interesse. Ma Haynes cancella subito ogni possibile sospetto e dubbio, e la storia finisce affogata in un indistinto sentimentale. Stranamente, il regista dolcifica, attenua le contraddizioni che percorrono sottotraccia l’amore delle due protagoniste e ci consegna più un virtuoso manifesto ideologico che una storia interessante.