[Recensione] Cavalli Selvaggi di Cormac McCarthy

Creato il 14 marzo 2012 da Queenseptienna @queenseptienna

Titolo: Cavalli selvaggi
Autore: Cormac McCarthy
Editore: Einaudi
ISBN: 9788806139032
Anno: 1996
Num. Pagine: 299 Pagine
Prezzo: € 9,78
Voto:

Trama: L’epoca moderna di McCarthy, intrisa di forza biblica, è ambientata nei deserti che si estendono dal Texas al Messico, regno di lupi, cavalli e grandimandrie di bestiame. Ed è appunto un viaggio a cavallo nel deserto quello cheintraprendono i due giovani protagonisti del romanzo, tra distese assolate,haciendas e sbandati pronti a tutto. Un viaggio iniziatico attraverso elementi primordiali, in cui l’innocenza diventa esperienza del mondo e del dolore.L’atmosfera magica e selvaggia della frontiera ritrova così, nella prosadi McCarthy, il fascino dei grandi miti americani.

Recensione: Cavalli Selvaggi è il primo volume della Trilogia della Frontiera, una delle migliori opere di McCarthy.
Leggere la Trilogia della Frontiera è un po’ come vedere la trilogia di Matrix, il primo libro ti lascia a bocca aperta, gli altri due, pur essendo molto belli e con dei veri lampi di genio, risentono del confronto con il primo.

McCarthy nasce come scrittore western, quasi tutti i suoi racconti si snodano sulla frontiera, ossia il territorio a cavallo tra il Messico e il sud degli Stati Uniti.
Il tema dominante delle sue opere è l’ineluttabilità del destino dell’uomo; i suoi personaggi sono virili, epici, incarnano i valori della frontiera (coraggio, lealtà, rettitudine) e lottano contro le avversità di un territorio duro, attraversato da sentimenti contrastanti e pulsioni violente.
Ma per quanto lottino e si impegnino alla fine vengono sopraffatti, sconfitti o messi a margine da una terra sempre troppo diversa da loro.

Il protagonista della storia è John Grady, giovanissimo cowboy (sedicenne) che scappa di casa quando viene a sapere che il ranch dove vive sarà venduto, con lui c’è il suo amico Lacey Rawlins.
Il loro sogno e semplice, fare i cowboy, il solo genere di vita che conoscono e apprezzano e forse l’unico per il quale sono tagliati.
E’ il primo quarto del ’900, e gli Stati Uniti iniziano a essere un paese ricco che si modernizza velocemente, dove presto non ci sarà più posto per un cowboy.

Al di là della frontiera invece c’è il Messico.
E il terzo protagonista della storia è proprio lui, il Messico, con i suoi deserti assolati, la sue pianure e i suoi altipiani, la povertà estrema e i latifondi, un paese di contrasti come le persone che lo abitano, siano essi contadini o pastori, proprietari terrieri, galeotti o soldati.
John Grady comprende e ama questa terra ma sopratutto la rispetta.

Intorno a lui le altre figure, il suo inseparabile amico Lacey (che incarna una copia un po’ sbiadita degli stessi ideali), Blevins un ragazzino dal passato non chiaro, troppo giovane e irruento, e poi i mandriani, il proprietario del ranch dove i due vengono assunti e sua figlia, la giovanissima Alejandra.

John riesce a coronare il suo sogno, lavorare con i cavalli, vivere libero e anche innamorarsi.
Ma il Messico è una terra dura, una terra feudale, e il destino degli ultimi non è quello di essere felici.
Così a John toccherà sfidare tutto questo, fronteggiare la violenza di cui lo stesso suolo sembra imbevuto, la cattiveria degli uomini, le regole non scritte di un epoca passata.
E lui lo fa, lo fa nel solo modo in cui è capace, con coraggio, testardaggine e con l’onesta semplice dei giusti.
Lotterà per avere ciò che desidera ma lotterà infine contro nemici che non può battere.

Cavalli Selvaggi è un libro molto bello, amaro, epico e violento come il Messico.
E’ un racconto virile, le donne sono messe in secondo piano sebbene muovano diverse leve di potere, è un romanzo che guida il lettore, passo dopo passo e quando anche l’ultima scena si consuma, per quanto sembri triste o ingiusto, rimane in fondo la consapevolezza che è così che doveva andare, e che essere eroici a volte non serve, o meglio, non basta.

John Grady è un personaggio ben tratteggiato, come quasi tutti quelli del romanzo, alla ricerca della cosa giusta da fare, sempre, per quanto possa essere difficile.
Lo stile di scrittura è molto diretto, non vi è differenza tra il linguaggio scritto e quello parlato il che da molta fluidità al racconto.
McCarthy usa poche parole, i fatti descritti sono netti, le armi sparano, le persone muoiono.
Interi dialoghi sono scritti in Messicano, che per il lettore italiano non rappresentano un grande problema, ma per quello inglese creano invece delle vere e proprie barriere linguistiche che rendono incomprensibili parti del romanzo, come incomprensibile è sempre un mondo nuovo e diverso.
Come in tutti i racconti di ampio respiro ci sono parti che si apprezzano di più e parti che si apprezzano di meno, una debolezza ad esempio è che, come accennato, McCarthy è uno scrittore che da poco peso alla componente femminile, è una scelta, e quindi non la discuto, ma questo viene un po’ a pesare quando intercorrono i rapporti tra gli uomini e le donne (principalmente tra John e Alejandra) dove lo stile narrativo ne penalizza in parte le descrizioni.

Il romanzo in se si può dividere in due grossi blocchi, una prima parte in cui John e Lacey raggiungono il messico e trovano lavoro e una seconda parte dove iniziano i problemi.
Io personalmente gradisco di più la prima parte, la seconda ha un’ambientazione più urbana, lontana dai grandi paesaggi, ma è un parere personale, in entrambe la storia corre fluida e con una narrazione di alto livello.
La contraddizione tra le due parti è aspra, John non si arrende, mai, lotta con tutto se stesso per ottenere alla fine qualcosa di semplice, qualcosa che in fondo gli spetta, persa a causa di eventi di cui lui è in minima parte responsabile.

Ed è li la grandezza dell’opera.
Paradossalmente, le scene migliori sono quelle in cui i personaggi si rendono conto che tutto è finito.
Quando Alejandra lo saluta per un ultima volta alla stazione, quando Lacey se ne va, quando Blevins viene ammazzato come un cane su una pista polverosa.
E infine quando anche lui, con il cuore gonfio di tristezza, riattraversa la frontiera cercando, ancora una volta, di fare ciò che è giusto.

Non posso che consigliare la lettura di questo libro, uno dei migliori di McCarty insieme a No Country for Old Men, sull’onda di questo romanzo è probabile che vorrete, come me, leggere anche gli altri due che compongono la trilogia, io l’ho fatto e non me ne pento, ma questo sta a voi.
McCarthy è uno scrittore molto capace e il suo stile si sposa benissimo con un racconto western.
Ci sono alcune descrizioni secondarie sparpagliate per il romanzo che rimangono impresse al di là della storia in se, le mie preferite sono quando il giovane Blevins racconta perchè è terrorizzato dai fulmini, ossia perchè un suo conoscente è stato colpito da un fulmine e la scarica ha fuso tutte le otturazioni che aveva in bocca e quindi ha saldato i suoi denti assieme; o quando la nonna di Alejandra spiega a John perchè il suo amore per la nipote non è un motivo valido, ne sufficente.
Lo fa raccontando la storia del Messico, di quando i contadini erano così poveri da possedere un solo vestito e camminavano verso la città, raccogliendo ogni tanto un chiodo o un bullone arrugginito che trovavano in strada, convinti, nella loro ignoranza, che avrebbero potuto avere un valore per qualcuno.

Piccoli sottoracconti che caratterizzano benissimo l’ambientazione.

Il mio voto è un 4 stelle, è un bellissimo libro.


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