[Recensione] Cella 211 ovvero: che bello il passaparola

Creato il 19 luglio 2010 da Loffio

Possiamo conoscere molto, ma non possiamo conoscere tutto, per questo il passaparola è una gran cosa, non lo scopro certo io, ti permette di trovare quel libro, quel film, quel ristorante, che magari ti è sfuggito tra le pieghe del marketing e della mancanza di tempo, ma che meriterebbe un po’ del tuo tempo.

E’ il caso di questo Cella 211, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo, girato dal (personalmente) sconosciuto Daniel Monzon, che ho conosciuto grazie un paio di compari che decantavano le doti di un certo “Malamadre”.

Malamadre (uno dei cattivoni dell’ultimo Miami Vice) è il coprotagonista della vicenda, ergastolano violento, incazzoso, carismatico ma leale che guida una rivolta carceraria, dall’altra parte abbiamo Juan Oliver, giovane guardia e futuro padre, rimasto intrappolato nel bel mezzo della rivolta che si fingerà carcerato per non ritrovarsi un cucchiaio affilato in gola. A sentirla così farete il mio stesso errore di valutazione “si vabbeh è chiaro che tra Oliver e Malamadre verrà a crearsi una situazione di mutuo rispetto per cui alla fine la guardia si schiererà definitivamente con i carcerati”.

Fortunatamente le cose non sono così semplici e scontate, altrimenti non sarei qua a scriverne, il rapporto tra i due è solo una piccola parte del tutto, intorno ci sono i giochi di potere tra carcerati, la continua possibilità che Oliver venga scoperto, guardie che non sono meglio di quelli che rinchiudono (non a caso il film si apre con Oliver che viene completamente lasciato da solo mentre i colleghi cercano di mettersi in salvo), insomma potrebbe tranquillamente essere una puntata di The Shield, e questo penso sia il miglior complimento che posso fare alla pellicola.

La regia è decisamente europea, niente orge di botti e spari all’ammeregana e, al contrario di una guardia carceraria, usa la violenza solo quando strettamente necessario, però tranquilli che un paio di gole tagliate e due tre cacciavite nello stomaco non mancano. Un cocktail di azione, denuncia e prison movie che non vi annoia con moralismi da due soldi e alla fine riesce a illustrare perfettamente il problema carcerario mondiale senza che il ritmo ne risenta troppo,  casomai basta che Malamadre aggrotti le sue enormi sopracciglia alla Kenshiro per far salire subito la tensione.

Il pregio più grande del film è senza dubbio l’assoluto disprezzo per un finale consolatorio, non c’è redenzione, non ci sono burberi carcerati che scoprono la vocazione al bene, non ci sono atti di eroismo, non c’è compassione, non c’è bianco, nero, bene o male, rimangono solo le azioni che si compiono quando si è alle strette, quando si perde tutto.

E se il giorno prima siete un rispettabile membro della società, chi lo dice che togliendovi tutto non siate pronti a tagliare gole usando le schegge di ceramica di un cesso?

Grazie la Nuzzi e grazie al Fane per avermelo consigliato.


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