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RECENSIONE: “Come fossi solo”, il massacro di Srebrenica e la giustizia che manca

Creato il 30 gennaio 2014 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 30 gennaio 2014 in Bosnia Erzegovina, Critica letteraria, Slider with 0 Comments
di Filip Stefanović

Copertina di Come fossi solo

Se un libro non si giudica dalla copertina, per una volta permetteteci di iniziare proprio da quella: il nuovo romanzo Come fossi solo, dello scrittore esordiente Marco Magini, vuole contribuire all’analisi del massacro di Srebrenica. Eppure quello ritratto sulla coperta, di spalle e con un pianoforte, è un soldato russo in Cecenia.

Non facciamo tale appunto per pignoleria, ma perché purtroppo questo pressapochismo persiste per tutto il libro. Come fossi solo è la storia in prima persona e a tre voci di tre differenti protagonisti, il soldato serbo-bosniaco Dražen Erdemović, che ha partecipato all’atroce massacro consumatosi a Srebrenica nel luglio del 1995, il casco blu Dirk, del contingente olandese delle Nazioni Unite che presidiava l’area, colpevole di aver di fatto consegnato i civili di Srebrenica in mano a Mladić, segnandone la fine certa, ed il giudice dell’Aja Romeo González, che nel processo che seguirà farà parte del collegio giudicante Erdemović per il crimine compiuto.

Più che un libro sul perché è successo ciò che è successo, l’assassinio a sangue freddo da parte serba di oltre ottomila civili bosniaci musulmani, in quella calda e brutale estate di un conflitto perverso che durava oramai da quattro anni, il romanzo si chiede, attraverso le oneste parole del giudice González, se «può esistere la giustizia degli uomini?». In questo senso, seguendo l’esempio del saggio di Slavenka Drakulić, purtroppo mai tradotto in italiano, They Would Never Hurt a Fly, e sulla scia de La banalità del male di Hannah Arendt, Magini rimarca come, per giustiziare a sangue freddo settanta innocenti, ragazzini di tredici anni e vecchi inabili alla guerra, non occorra essere mostri: basta avere moglie e figli, o essere nati nel posto sbagliato, al momento sbagliato, per trovarsi complici di una Storia scritta da altri, per altri. Ed una volta che il fatto è compiuto, gli innocenti messi a tacere per sempre, c’è modo di fare giustizia? A che servono i tribunali? Non a riportare in vita i morti, certo. A lanciare un messaggio, forse, che i colpevoli non la faranno mai franca: un deterrente per il futuro, ché il passato è fatto, morto uno o morti a migliaia, nessuno può rimediare. Quando però un tribunale fallisce anche in questo, e a pagare per un genocidio è solo un giovane soldato ventenne, il dito sul grilletto, e non il sistema che l’ha armato, chi ha pianificato e organizzato a tavolino una guerra orrenda e fratricida, si comprende come anche la giustizia internazionale non sia in grado di ricomporre un puzzle a cui mancano i pezzi. Soprattutto quando il tribunale chiamato a decidere ha una forte connotazione politica, come le sentenze di assoluzione piovute in più occasioni in tempi recenti hanno contribuito a confermare.

Se il libro ha il pregio di rinnovare domande senza risposta, scomode perché di coscienza, prima che di legge, purtroppo ci sono troppe lacune perché possa essere definita un’opera riuscita: è un libro occidentale, scritto per lettori che quella storia non la conoscono. L’utilizzo della prima persona è stato un azzardo non riuscito, nel tentativo di raccontare un conflitto che Magini dimostra di aver studiato, ma non assimilato, scaturito da una storia ed una cultura a lui lontane: la tensione psicologica viene troppo frequentemente smorzata da un vocabolario alieno a quello che chi conosce la lingua serba si aspetterebbe dalla truppa. Il soldato Erdemović viene spesso apostrofato dai commilitoni come “mezzosangue”, per le sue origini in parte croate, un termine che, oltre che apparire eccessivamente raffinato per essere utilizzato da bande di criminali di guerra, nemmeno esiste nel vocabolario serbo, mentre i combattenti dell’esercito jugoslavo stanziati nella Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Republika Srpska, inspiegabilmente mutata in “Repubblica della Srpska”, un pasticcio linguistico che suona più o meno come “Repubblica della Serba”) tracannano in più occasioni “raki”, la tipica grappa che in realtà si chiama “rakija”. Piccoli dettagli che l’autore sbaglia in pieno, i quali inficiano il realismo dell’intero prodotto, e che nonostante la giovane età dell’autore (o tanto più a causa di essa) risultano imperdonabili nell’era di internet, in cui piccole sottigliezze di questo tipo possono essere facilmente verificate con una velocissima ricerca in rete.

Le poche scene di violenza dell’intero romanzo, quale uno stupro sanguinoso di una donna bosniaca da parte dei soldati serbi, sono descritte con precisione eppure in maniera distaccata: una scelta esplicita dell’autore, che in questa maniera, dice, preferisce evitare di scadere nel voyeurismo bellico. Il risultato, però, è quello, sbagliato, di ovattare la brutalità di un conflitto, silenziando le voci delle vittime, più che dei carnefici. Si sarebbe potuto osare di più, legare più sapientemente le differenti parti del racconto per dare un quadro coevo di quanto avvenne in quella sofferta Bosnia, del perché la Jugoslavia affogò nel sangue di Srebrenica, poiché l’impressione finale è che per quanto l’autore sollevi col suo libro le giuste domande, non offra strumenti adeguati per tentarne le risposte.

Marco Magini
Come fossi solo
Giunti, 218 pp., 14€

Tags: Come fossi solo, Filip Stefanović, genocidio, Giunti, Hannah Arendt, libri, Marco Magini, Mladic, recensione, Republika Srpska, Slavenka Drakulic, Srebrenica Categories: Bosnia Erzegovina, Critica letteraria, Slider


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