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Recensione del disco di Alessandro Battistini: “Cosmic sessions”. Un viaggio alla scoperta dell’America tra country, folk e blues d’autore

Creato il 17 marzo 2014 da Giannig77

Davvero convincente l’album “Cosmic sessions”, esordio solista di Alessandro Battistini, leader dei Mojo Filter, in cui prendono il largo suoni arcaici, acustici, che rimandano ad echi lontani, in odor di America. Quella America polverosa, degli Stati del Sud: niente brillantini, sole e spiagge californiane, con le bikini girls a fare da contraltare, ma bensì l’America sconfinata dei deserti, delle arene, dei rodeo, delle lande assolate e degli inverni plumbei in cui vale la pena riscaldarsi vicino a un rassicurante camino. Già, gli scenari che sostanzialmente piacciono a me; e qui tra le 9 tracce (più una bonus track) di sostanza ce n’è a iosa. Basta chiudere gli occhi e lasciarsi cullare e trasportare dai suoni che il Nostro ha condensato al debutto. Sorretto da una voce sicura, seppur un pochino prevedibile e con pochi guizzi di nota, l’album di dispiega tra un solido country di matrice dylaniana, un folk che pare ispirarsi non solo ai primigeni tipo Woody Guthrie ma anche a quello di nuove leve tipo Ryan Adams, almeno quello più acustico e in generale un roots apertamente dichiarato in brani come “The Innar side”, dove fanno capolino anche chitarre vagamente psichedeliche. Il blues compare tra le pieghe di “Staring at your splendor”, tra le più convincenti del lotto e in “The wise rabbit”, dai toni surreali, ipnotici e bucolici. Più aspra quella “Walking the dog”, ripresa da Rufus Thomas in chiave honky tonk, mentre si discosta a mio avviso dalla scaletta per distacco la traccia di apertura, l’intensa e calda ballata “Nothing more to say”, un’evocativa ballata dai toni soffusi. Più smaccatamente country sono invece l’ode amorosa “All of thoserainy days”, la briosa “Home” e la vivace “Fill my world”, per non parlare della strumentale “Screaming old wood”, un breve inserto che sembra introdurci in un rodeo! Insomma, un bel disco composito, ben suonato e arrangiato, in cui l’autore ha messo mano a tutte le sue passioni musicali e culturali, riuscendo a trasferirle su disco e a far esaltare (e risaltare) le istanze di una musica che sa toccare corde sensibili e le anime di chi si emoziona sentendo il suono che pare provenire da un’epoca lontana.

Davvero convincente l’album “Cosmic sessions”, esordio solista di Alessandro Battistini, leader dei Mojo Filter, in cui prendono il largo suoni arcaici, acustici, che rimandano ad echi lontani, in odor di America. Quella America polverosa, degli Stati del Sud: niente brillantini, sole e spiagge californiane, con le bikini girls a fare da contraltare, ma bensì l’America sconfinata dei deserti, delle arene, dei rodeo, delle lande assolate e degli inverni plumbei in cui vale la pena riscaldarsi vicino a un rassicurante camino. Già, gli scenari che sostanzialmente piacciono a me; e qui tra le 9 tracce (più una bonus track) di sostanza ce n’è a iosa. Basta chiudere gli occhi e lasciarsi cullare e trasportare dai suoni che il Nostro ha condensato al debutto. Sorretto da una voce sicura, seppur un pochino prevedibile e con pochi guizzi di nota, l’album di dispiega tra un solido country di matrice dylaniana, un folk che pare ispirarsi non solo ai primigeni tipo Woody Guthrie ma anche a quello di nuove leve tipo Ryan Adams, almeno quello più acustico e in generale un roots apertamente dichiarato in brani come “The Innar side”, dove fanno capolino anche chitarre vagamente psichedeliche. Il blues compare tra le pieghe di “Staring at your splendor”, tra le più convincenti del lotto e in “The wise rabbit”, dai toni surreali, ipnotici e bucolici. Più aspra quella “Walking the dog”, ripresa da Rufus Thomas in chiave honky tonk, mentre si discosta a mio avviso dalla scaletta per distacco la traccia di apertura, l’intensa e calda ballata “Nothing more to say”, un’evocativa ballata dai toni soffusi. Più smaccatamente country sono invece l’ode amorosa “Allo f those rainy days”, la briosa “Home” e la vivace “Fill my world”, per non parlare della strumentale “Screaming old wood”, un breve inserto che sembra introdurci in un rodeo! Insomma, un bel disco composito, ben suonato e arrangiato, in cui l’autore ha messo mano a tutte le sue passioni musicali e culturali, riuscendo a trasferirle su disco e a far esaltare (e risaltare) le istanze di una musica che sa toccare corde sensibili e le anime di chi si emoziona sentendo il suono che pare provenire da un’epoca lontana.


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