Recensione di captain america – the winter soldier

Creato il 08 maggio 2014 da Postpopuli @PostPopuli

di Nicolò Venturen - ilcucchiaiononesiste88.wordpress.com

Recensione di Captain America – The Winter Soldier

 Se c’è una cosa che conferma questo Captain America-The Winter Soldier è il grande lavoro che stanno facendo i Marvel Studios. Inutile ripeterne i meriti ma importante riconoscerne l’abilità nel portare avanti un universo cinematografico così espanso.

titanfall-france.fr

Mai era successo che dei film funzionassero come veri e propri episodi di una serie televisiva, con personaggi ed eventi collegati. E come ogni buona serie – con la giusta programmazione – migliora sempre di più grazie ai tasselli che si vanno ad aggiungere man mano. Questo capitolo in particolare più che del supersoldato ci parla del mondo che occupa e dell’organizzazione per cui lavora: lo SHIELD. La società segreta citata in quasi ogni film (e ora protagonista guarda caso anche di una serie tv) che qui viene descritta con tutte le sue ombre a partire dal direttore Nick Fury, con un Samuel L. Jackson finalmente più sfaccettato.

È una storia di spionaggio, lotte interne, compartimentazioni e di nemici invisibili che si servono del Soldato d’inverno – in maniera non dissimile dal Mandarino di Iron man 3 – come braccio operativo per celare qualcosa di più ampio. Il tutto viene raccontato con agilità dai fratelli Anthony e Joe Russo e con la consapevolezza di parlare ad un pubblico che ormai non ha più bisogno di storie autoconclusive, ma è in grado di accettare i meccanismi di una serialità cinematografica sempre più evidente. Così quello che ci viene proposto in questa avventura non è un semplice riempitivo, ma affronta senza paura la portata e le conseguenze degli eventi, consegnandoci anche uno Steve Rogers perfettamente inquadrato nella sua moralità che non fa rima semplicemente con quella da “primo della classe”.

Negli anni ’80-’90 gli equivalenti degli attuali supereroi erano i vari Indiana Jones, Martin Riggs e John McClane. Proprio quest’ultimo, in Die Hard, è stato il primo action-hero della storia del cinema a piangere. Steve Rogers non è il primo ma è a suo modo complice di una piccola rivoluzione, almeno nelle intenzioni e nel modo che ci viene raccontata, rappresentando il primo supereroe veramente smarrito e così fuori posto nel mondo.

La sua condizione di disadattato viene trattata con ironia spesso intelligente – memorabile il libretto su cui si appunta i film e la musica da ascoltare – ma anche incredibilmente crudele come la domanda che gli viene rivolta su cosa lo renda felice, alla quale risponde con un semplice e disarmante “non lo so”.

Una sceneggiatura infallibile nel suo essere non solo uno spensierato blockbuster ma rivelarsi coraggiosa e ambiziosa senza la pesantezza di prendersi mai troppo sul serio.

E dopo i titoli di coda, di corsa ad ascoltare Marvin Gaye.

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