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Recensione di Le palme selvagge di William Faulkner

Creato il 05 dicembre 2015 da Leggere A Colori @leggereacolori

Informazioni sul libro
Titolo:
Autore: William Faulkner
Pubblicato: Adelphi
Collana:Gli Adelphi
Genere: Classici
Formato: BrossuraPagine:

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Giudizio: four-stars


William Faulkner racconta a capitoli alterni due storie: quella di Harry e Charlotte amanti che fuggono, si rifugiano in una vecchia casa dove Harry Charlotte muore a seguito di un aborto procurato e quella del vecchio carcerato che è costretto ad aiutare le vittime dell’inondazione del Mississippi e riesce addirittura a salvare una donna incinta. Due racconti autonomi, diversi, due facce però della stessa medaglia che narra del mistero della nascita, del mistero della vita.

Le palme selvagge di William Faulkner è generalmente considerato tra le opere minori del noto scrittore americano anche se lo stile di scrittura è notevole e i due racconti che ne fanno parte hanno un forte impatto emotivo.

Due storie parallele che apparentemente sembrano non avere nulla in comune e che non si intersecano mai ma che hanno un solo filo conduttore. Da un lato la storia di un amore proibito per quel tempo (1938) una coppia di amanti fuggitivi, Harry e Charlotte, lui che la aiuta ad abortire, scelta questa insensata ma imposta dalla vita, che la porterà a morire sola e dissanguata. Dall’altro un vecchio, un detenuto che durante l’inondazione del Mississippi, 1927, salva una donna gravida, l’aiuta a partorire portandola in salvo con il bambino. Anche in questo caso la disperazione è compagna di viaggio del carcerato e lo porterà a scegliere di tornare alla vita carceraria.

Il genio di Faulkner è tale che il lettore capisce presto che il tema di entrambe le storie tanto diverse è di fatto lo stesso. I due racconti si concentrano di fatto sul destino di alcuni individui che sono catturati dai misteri della vita: nel primo caso, l’amore tra Harry e Charlotte; un amore però deviato dal percorso usuale della tradizione, del matrimonio, e che i due si sforzano potentemente a mantenere vivo e a custodire, pagandone un prezzo altissimo e inevitabile; nel secondo, un detenuto è coinvolto in un diluvio e viene inviato a salvare due persone, non solo le salva, ma anche aiuta la donna incinta a far nascere suo figlio e poi completa la sua missione, restituendo la barca e ritornando in carcere. In entrambi i casi, altre vite o altri destini si presentano costantemente, ma i protagonisti rifiutano di modificare il loro destino, e lo seguono consapevoli per com’è stato scritto.

Faulkner riesce a dare alla sua scrittura la consistenza di un pugno nello stomaco, le sue pagine sono piene di sofferenza e accompagnano alla perfezione questi due viaggi catartici verso un dolore, inteso come riscatto morale. William Faulkner è stato uno dei grandi sperimentatori della letteratura americana, Premio Nobel per la letteratura nel 1950, e Le palme selvagge offre una delle sue prove di scrittore più interessanti e particolari: due storie intrecciate, diverse nella trama e nel tema ma legate tra di loro da un’unica condizione il destino che imprigiona l’uomo.

Approfondimento

Pubblicato la prima volta nel 1939 con il titolo Se ti dimentico, Gerusalemme, questo doppio racconto assomiglia a una delle opere più note di Hemingway, Addio alle armi. Sicuramente Faulkner è stato ispirato da Hemingway ma il suo narrare è più moderno, più coinvolgente.

Stilisticamente il noto autore americano fa un uso sapiente dello stream of consciousness rivelando attraverso esso il funzionamento della mente dei suoi personaggi, ma a differenza di Joyce e della Woolf, non in maniera rinfusa, caotica, ma ordinata affinché il lettore possa seguire quei pensieri e farli propri.

«Ma dov’è la disperazione? pensava il dottore. Dov’è il terrore? «Gesù, ecco che ricomincia. Harry! Harry! Me l’hai promesso!».
«Son qua io. Va tutto bene. Torna a letto, ora».
«Dammi da bere».
«No. Ti ho detto basta. Ti ho detto perché. Hai male, ora?».
«Gesù, non lo so. Non posso dirlo. Dammi da bere, Harry, così magari ricomincia di nuovo».
«No, non è possibile, ormai. È troppo tardi perché possa ricominciare. E poi ora c’è qui il dottore. Lo farà ricominciare lui. Ora ti metto la camicia così può entrare».
«E così rischio d’insanguinare l’unica camicia da notte che ho mai avuto».
«È per questo che l’abbiamo comprata. Forse è quel che ci vuole perché ricominci. Vieni, ora».
«E perché hai chiamato il dottore, allora? Perché sprecare cinque dollari? Oh, dannato buono a nulla… No, no, no, no. Presto, ecco che ricomincio. Tienimi, presto. Mi fa male. Non riesco a trattenermi. Oh, maledetto, maledetto, maledetto…». Si mise a ridere; era un riso aspro, non forte, come conati o tosse. «Ecco. Ecco. Come ai dadi. Viene sette, viene undici. Magari se posso continuare a dirlo…». Egli (il dottore) le udiva, le due paia di piedi nudi sul pavimento, poi il rugginoso lamento delle molle del letto, la donna che ancora rideva, non forte, con la stessa astratta e furiosa disperazione che le aveva visto negli occhi al di sopra della ciotola d’ibisco a mezzogiorno. Restava lì, con la sua logora borsa nera dei ferri, a guardare i jeans scoloriti tra la massa degli altri indumenti sulla sedia a sdraio; vide riapparire l’uomo di nome Harry e scegliere in mezzo a essi una camicia da notte e di nuovo scomparire; il dottore guardò la sedia. Già, pensò. Proprio come la fascina. Poi l’uomo di nome Harry si fece sulla porta.
«Può entrare, ora» disse.




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