L’eco mediatico suscitato dal film “Mustang”, amplificato dalla recente nomination all’Oscar quale miglior film straniero, ma già presente dopo i consensi unanimi di Cannes, è sicuramente comprovato da una storia all’altezza.
L’opera prima della giovane regista turca Deniz Gamze Erguven, frettolosamente paragonato a “Il Giardino delle Vergini Suicide” (anch’esso un’opera prima, di Sofia Coppola), non può lasciare indifferenti, tesa com’è a raccontare, mediante le vicende di cinque sorelle, tutte le contraddizioni, le fragilità, le debolezze di un Paese, la Turchia, da sempre crocevia di razze e culture, e allo stato attuale ancora incapace di volgere un sereno sguardo al futuro, tenendo di pari passo modernità e tradizioni. Ciò è amplificato soprattutto se si parla della Turchia più periferica, lontana mille chilometri da Istanbul, scenario in cui si trovano forzatamente a fare i conti con la loro adolescenza repressa cinque bellissime adolescenti, orfane di entrambi i genitori e cresciute dalla severa – ma talora comprensiva nonna – e dal dispotico zio. La voce narrante è quella di Lale, la più giovane delle sorelle, che ci guida attraverso il percorso di formazione delle donne del posto, che sembrano andare inevitabilmente incontro al loro segnato destino del tutto (o quasi) passivamente, come la tragica storia di una di loro (Ece) dimostrerà. Un banale episodio di spensierato gioco nello splendido mare turco che bagna il villaggio dove è ambientato il film, con loro a “combattere” cavalcioni su alcuni maschi coetanei, finirà per destare scandalo, “costringendo” lo zio a un regime sempre più duro di reclusione nei loro confronti. Smetteranno di interagire col mondo esterno, se non tramite pericolose scorribande (vedi durante una capatina allo stadio), non andranno più a scuola, via via inizieranno a smettere i panni delle ragazzine “occidentali” per indossare quelli molto più modesti e castigati delle donne della loro tradizione. Arriveranno persino a mimare quegli stessi giochi che un tempo compivano in modo naturale come tutti i ragazzi.
Lale però, attraverso le vicende delle sorelle maggiori, riesce a presagire la triste sorte che le spetterà (matrimonio combinato, verifica della verginità e sottomissione) e ben presto si ritroverà ad escogitare dei piani di salvezza, trovando un’alleata nell’ultima sorella rimasta a casa, ma già prossima alle nozze, Nur.
Col fiato sospeso si arriva alla fine del film, che rappresenta una vera possibilità per le due giovanissime protagoniste, grazie al ricongiungimento con l’amata professoressa salutata l’estate precedente, quando si trasferì in città, ad Istanbul. E lo faranno grazie al coinvolgimento di un amico di Lale, molto più grande, che in modo disinteressato troverà il modo di aiutarle. L’espediente finale sembra quasi voler sancire da parte della regista un’apertura del mondo maschile turco nei confronti della donna, e allo stesso tempo considerare quanto una figura chiave, anche se qui solo accennata, come un’altra donna (l’insegnante) possa essere importante come esempio da seguire, dimostrazione che una nuova vita, più libera dove realizzarsi in libertà, sia in fondo possibile.
Un bellissimo film, toccante e delicato, che rappresenterà solo la Francia ai prossimi Oscar, nonostante la produzione sia condivisa con la Turchia.