Sono arrivate mercoledì 28 gennaio le nomination ai César, i massimi premi del cinema francese (verranno assegnati il 22 febbraio). E a ottenerne di più è stato Saint Laurent di Bertrand Bonello: ben dieci. Mai arrivato in Italia, Saint Laurent è stato presentato lo scorso maggio in concorso dal festival di Cannes, ed è stato in quell’occasione che l’ho visto e ho scritto questa recensione. Attenzione: da non confondersi con Yves Saint Laurent di Jalil Lespert, l’altro biopic del couturier uscito nel 20147 (e molto più brutto).Saint Laurent, un film di Bertrand Bonello. Con Gaspard Ulliel, Louis Garrel, Léa Seydoux, Valeria Bruni Tedeschi, Helmut Berger, Jasmine Trinca, Jérémie Rénier.
Louis Garrel è Jacques de Bascher
Viaggio al termine della notte in compagnia di Yves Saint Laurent e dei suoi lati oscuri. Un film non celebrativo che va oltre la scorza dell’ufficialità per scoperchiare segreti e private fragilità, dall’alcol alla droga alla promiscuità sessuale. Una danza degli spettri negli atelier del glamour. Voto 7+
No, non è proprio piaciuto, almeno alla parte italiana che sta qui a Cannes (per i francesi è un altro discorso, si sa). Critici vieux e nouveaux, critici consacrati e aspiranti critici, signori, signorine, sciure, sciurette. Un’insolita unanimità nel decretare (ripeto: parlo di italiani) il no, se non proprio l’ostracismo a questo secondo biopic del super-fantagenio della moda YSL dopo quello, in my opinion insopportabile, di un paio di mesi fa con Pierre Niney diretto da Jalil Lespert. Forse perché questo Saint Laurent del francese Bertrand Bonello, l’oltraggioso regista che qui a Cannes pochi anni fa aveva scandalizzato con il suo L’Apollonide ove faceva piangere lacrime di sperma a Noémie Lvosvky, è troppo camp e queer, o troppo dark, o troppo poco prono al genio preferendo raccontare il lato oscuro e i vizi segreti (già svelati da qualche biografia assai poco ufficiale). Un film-ballata macabra, danza di spettri e di morte, discesa senza scampo negli abissi e agli inferi (della follia, della depravazione). Non risparmiandoci nemmeno – cosa che invece la versione bon ton di Jalil Lespert (versione, ricordo, voluta e avallata dal socio-compagno di YSL Pierre Bergé) si guardava bene dal fare – di presentarci un Saint Laurent vecchio e distrutto, quale antica checca che carezza il suo cane (Moujik IV) e ragiona e sragiona tra ricordi del passato e un presente che ha perso ogni contorno di realtà per farsi pura imagerie e delirio, e a impersonarlo Bonello ha genialmente chiamato un revenant del cinema come Helmut Berger, meravigliosmente dissipato e alterato, seduto davanto a una tv in bianco e nero a guardarsi in La caduta degli dei di Visconti la scena in cui il figlio degenere stupra la madre. E il figlio degenere è Helmut Berger. Ma tutto il film è disseminato di scene cultistiche o stracultistiche come questa, di clin-d’oeils che potrebbero trasformarlo a breve anche per coloro cui non è piaciuto, che l’hanno odiato, in guilty pleasure. E però per me guilty pleasure non è, ma film da prendere assai sul serio, nonostante le volute baracconaggini. Estremizzando e portando al punto di esplosione certi luoghi narrativi classici del melodramma, come il prezzo del successo, il binomo inscindibile genio e sregolatezza e il ‘signora mia c’è sempre un karma che alla fine ti presenta il conto delle tue scelte’, Bertrand Bonello confeziona un racconto a tinte fortissime, che se ne frega abbastanza del Saint Lurent ufficiale e pubblico, e perfino della sua moda, e lo trasforma semmai nella figura centrale di un sabba, e di uno psicodramma. Forse perché, non avendo avuto l’imprimatur di Pierre Bergé, non ha nemmeno ottenuto l’accesso agli archivi della maison e si è dovuto arrangiare, e dunque di scene d’atelier, e di sfilate, e di fitting se ne vedono sì, ma mica tante. D’altra parte quante volte l’abbiamo già sentita la storia, anzi la leggenda YSL? Lui che precocissimo diventa il delfino di Dior, lui che vien sbattuto fuori dalla maison dopo la morte di Dior, lui che con Bergé ne fonda una propria ed è subito successo. Poi le collezioni pietre miliari. La Mondrian, il maschile per lei, la russa. Grazie a Dio Bonello va veloce su queste cose che troppe volte ci son state raccontate dagli agiografi, anche perché lui agiografo non è e non gliene frega niente di celebrare la statura monumentale del couturier e molto gli importa invece dell’Yves privato, travolto dalle sue debolezze, dalle fragilità e, ebbene sì, dai suoi vizi (e spendiamola sant’Iddio questa parola). Strada sulla quale va molto più in là di quanto non abbia fatto il precedente film di Jalil Lespert, che, se non taceva del tutto, certo era assai cauteloso. Qui invece vediamo abbastanza presto il nevrotico e sempre depresso YSL giovarsi di parecchi aiutini chimici, pillole su pillole prescritte da medici fin troppo compiacenti. Poi comincia, anche grazie all’air du temps hippizzante e frikkettona e sballatona, la consuetudine con le varie droghe, credo tutte ma proprio tutte. Nella casa di Marrakech con la sua corte i trip e quant’altro sono assai frequenti. Lui si infragilisce sempre più, il suo equilibrio vacilla vistosamente, il socio e amante Bergé comincia un attimino a preoccuparsi. La rupture definitiva con la chiamiamola normalità sarà di lì a poco, quando Saint Laurent incontrerà il demone della sua vita, il dandy-angelo del male Jacques de Bascher de Beaumarchais, nome altisonante in un corpo irresistibile. Aduso a tutto, e pronto ad accompagnare Yves nei peggio e più infami gironi. Sesso sfrenato e promiscuo, e ancora pillole e pillole (ne farà indigestione l’adorato cane di Yves, Mojik, che ne morirà), e droghe sempre più pesanti. Giro vorticoso di bella gente, dai Rolling Stones a Andy Warhol. Yves si innamora di Jacques de Bascher, o se ne lascia plagiare, e in fondo è la stessa cosa. Jacques è l’amante di un altro signore della moda parigina di quei giorni, Karl Lagerfeld, ma non ha il minimo problema a mettersi con il di lui rivale. Lo trascinerà in incursioni notturne in boîtes e caves e vari bassifondi, e in orge con abbondanti presenze maschili assai virili, si suppone mercenarie. E sono stracultistiche le scene in cui arrivano i pompieri della vicina caserma e dei legionari che cantano il loro inno. Jacques morirà di Aids di lì a qualche anno, e vorrà essere sepolto con il suo teddy bear (e in un’altra scena memorabile lo vediamo, malato, mentre cuce gli strappi del suo peluche). Ora, cosa volete che ce ne importi in un film così dello chic e del bon ton? O della fedeltà stilistica all’icona YSL e alla sua eleganza? Contano le spericolatezza melodrammatiche e gli abissi succulentemente kitsch, e qui siamo accontentati in pieno. Intorno a Bonello si son radunati un bel po’ di attori amici, sodali, complici, pronti anche a girare una sola scena pur di partecipare. Léa Seydoux è la musa-amica di YSL Loulou de la Falaise, Valeria Bruni Tedeschi è una cliente timida dell’atelier, la ritornante Dominique Sanda (mito!) è la madre. E Jasmine Trinca è la modella Talitha Getty, morta a 30 anni di eroina, e difatti la vediamo solo farsi la pera, e nella scena finale cadavere. Poi, Louis Garrel. Perfetto quale luciferino Jacques de Bascher con baffo sottile e modi insinuanti da signorino del male. L’acme arriva verso la fine, dopo ormai due ore e mezzo di film, quando in un montaggio furiosamente alternato con scoppio e uso orgiastico di split screen vediamo il vecchio Yves/Helmut Berger ripensare alla collezione Russia, la sua ultima veramente grande, in fondo la sua uscita di scena quale signore della couture. Scorrono le immagini delle modelle, dei vestiti, del vecchio e del giovane Yves, e di chi in quel mondo dorato ci ha lasciato la pelle, Jacques de Bascher e Talitha. Esempio di un cinema che, per fortuna, non teme il ridicolo e si abbandona senza remore al mélo più fiammeggiante. Tutti a dire, ieri e oggi, che Gaspard Ulliel, cui tocca l’impresa di essere Saint Laurent, non è all’altezza di Pierre Niney, che nel precedente biopic era, nello stesso ruolo, strepitoso. Vero, ma qui non contano tanto gli attori, ma l’affresco alla Fellini-Satyricon che ne esce. Non aspettatevi grandi scene di sesso, che è più alluso e detto che mostrato. In fondo, Yves e Jacques de Bascher si baciano solo una volta. Sicché la scena più eclatante resta quella tra Saint Laurent e Pierre Berge, con un full frontal di Gaspard Ulliel che non sfigura al confronto di quello di Fassbender in Shame. Poi Pierre Berge lo rivolta a pancia in giù sul letto, giusto per non lasciare dubbi su top e bottom.