Autore: Dawn French
Traduttore: Laura Liucci
Editore: Leggereditore
ISBN: 9788865083048
Num. Pagine: 299
Prezzo: 14,00€
Voto:
Trama:
Chi occupa la stanza numero 5 del reparto di terapia intensiva? Un’amante ineguagliabile? Una donna egocentrica senza pari? Una martire altruista? Una cattiva madre? Una sorella amata? Una moglie egoista? Ciascuna di loro. Silvia Shute è una donna forte e risoluta, ma improvvisamente deve arrendersi al fatto che la sua vita abbia subito una battuta d’arresto. Nel suo passato si cela un oscuro e terribile segreto, e ora che è priva di coscienza in un letto d’ospedale, l’incessante flusso di visitatori sembra alternarsi per svelare il mistero di una vita spezzata. Silvia giace lì, vittima dei suoi cari, della noia, dei mormorii. Che le piaccia o no, la verità sta per farle visita. Come avvenne in passato…
Recensione:
Ho deciso di dare un voto assolutamente medio per via di due pecche che intaccano in maniera indelebile un romanzo che altrimenti avrebbe meritato qualcosa di più. La trama è interessante per chi ama i risvolti psicologici, per chi apprezza lo scavare nella psiche dei personaggi che si susseguono, l’alternarsi di punti di vista che vanno a creare un quadro complessivo che alla fine dovrebbe riuscire a chiudere il cerchio. In Dimmi che ti dispiace è così che succede, anche se – purtroppo – penso che l’autrice avrebbe dovuto metterci un po’ più d’ingegno.
L’inizio intriga, non c’è dubbio. Capitoletto dopo capitoletto veniamo lentamente immersi nell’intreccio, veniamo a sapere che Silvia si trova su un letto d’ospedale, in coma per la caduta da un balcone, sappiamo che ha un marito, una sorella, due figli, un domestica, un’amica, sappiamo che l’infermiera che si occupa di lei è una donna buona che ama il proprio lavoro.
Con lo scorrere delle ore impariamo poi a conoscere le personalità che si alternano, le loro sfaccettature, le loro bizzarrie, i punti di forza e le debolezze, e naturalmente cosa e come hanno che fare con la povera Silvia.
Il primo gradino fallato – e forse quello che più mi ha dato da fare durante la lettura – è stato proprio l’esporre le relazioni che intercorrono tra la malata e i suoi cari. Noioso. Tremendamente, pesantemente, melensamente noioso. Suddividendo il libri in quarti, il secondo e il terzo sono soporiferi; vengono fuori livori, rimostranze, sensi di colpa e analisi interiori, peccato che però ci vengano sbattuti in faccia in monoparagrafi compatti, fittissimi, densi di informazioni e cronache del passato – a volte persino confusi visti i salti temporali gli uni dentro gli altri. È come la focalizzazione sull’allontanamento dei famigliari sia stata specificata fino all’esasperazione all’inizio – forse per toglierselo subito dai piedi? – ma poi tutti i concetti, per tutti i personaggi, siano stati reiterati nei capitoli successivi attraverso metafore, situazioni analoghe, piagnistei vari, la fase centrale del romanzo è un turbinio di questo, unicamente di questo.
Se le questioni fossero state centellinate con più cura, poco per volta e senza far sorbire intere facciate di monologhi (peraltro un po’ pedanti, nel caso di Ed, che coi suoi discorsi mistici riguardanti il bosco si rivela essere una vera lagna) è probabile che la lettura sarebbe stata molto più sciolta e invogliante a continuare.
La seconda cosa che mi ha fatto storcere il naso è nientemeno che il perno del romanzo, ovvero il motivo per cui Silvia ha chiuso i ponti con tutti coloro che amava. Certo non ve lo rivelerò, ma posso dire che l’ho trovato debole. Debole, poco credibile e non sviluppato affatto. È come se fosse stato gettato in una frase a casaccio, appena due righe di secondaria importanza rispetto al resto del discorso, e poi di nuovo la trama si è immersa nel flusso di eventi esterni, senza approfondire.
In questa maniera la personalità stessa di Silvia è rimasta incompleta, irrisolta, per lei non ho provato né astio né comprensione, non sono riuscita a provare proprio nulla perché non ho avuto dati a sufficienza per farmi un’idea concreta né sul suo essere né sulle sue azioni.
A ogni modo, l’ultimo quarto del romanzo fa rialzare l’interesse, le dinamiche della vita riprendono il loro corso, la vicenda si smuove e si arriva a un finale che ho trovato azzeccato, naturale, giusto.
Nel complesso, Dimmi che ti dispiace è un bel libro, anche se la lentezza della parte centrale fa calare di parecchio l’attenzione, costringendo a dosare il tempo da dedicarvi, e nonostante l’epicentro stesso della storia – Silvia – sia stato liquidato nel tempo di un battito di ciglia.
È un’opera gradevole, che parla di come singoli avvenimenti possono cambiare in meglio o in peggio la vita, e di come le persone sono in grado di reagire alle avversità. Il coraggio di andare avanti malgrado tutto, i sentimenti che si possono sviluppare anche nei casi più inaspettati, e ciò che a volte siamo disposti a fare per amore e per affetto.
Non un romanzo perfetto, ma gradevole.