L’associazione cinefila CeCINEpas ha meritoriamente portato a Milano (proiezioni al Teatro Parenti sabato 22 e domenica 23 febbraio) i 5 cortometraggi – quelli live action, non di animazione – nominati quest’anno all’Oscar. Una categoria, i corti, sempre più importante, non solo agli Academy Awards, ma anche ai festival maggiori che dedicano spazio e spesso anche una sezione ad hoc ai film che qualcuno ha argutamente chiamato diversamente lunghi. Stupisce non trovare quest’anno in nomination Oscar nessun prodotto americano. Esclusa anche l’Italia. I cinque slot disponibili son stati invece occupati da Danimarca, Finlandia, Spagna, Francia e Regno Unito. Il pacchetto dei 5 corti candidati era già uscito, prima del suo arrivo a Milano al Parenti, nei cinema di nicchia americani, e con buonissimo, forse inaspettato, esito. Tant’è che lo scorso weekend, alla sua quarta settimana di programmazione, si è piazzato al 31esimo posto nella classifica incassi Usa con un totale ormai prossimo ai due milioni di dollari. Risultato clamoroso, se si pensa che La grande bellezza di Sorrentino, considerato da quelle parti un grande successo allo specialty box-office e di cui si parla e straparla, ha realizzato 2.100.000 dollari in 15 settimane. Segno che per i corti l’interesse cresce in America (e non solo lì), e cresce il pubblico. Io non ne sono mai stato un entusiasta e quando sono ai festival gli shorts li scanso accuratamente, non riuscendo proprio a capire come si faccia ad andare fino a Berlino o a Cannes, e a spendere l’iradiddio per soggiornarci, per poi guardarsi un pulviscolo di minifilm al posto di certi pesi massimi del concorso o delle altre sezioni (no, non è che si possa fare l’uno e l’altro, ai festival sei costretto a scegliere per via delle sovrapposizioni del programma, se vedi una cosa ti perdi l’altra, non ce n’è).
Però mi arrendo. I corti sono ormai qualcosa con cui chi va al cinema, e il cinema lo ama in tutti i suoi modi, deve fare i conti. Prima di passare alle recensione dei cinque oscarizzabili – due buoni su cinque, e non è una quota entusiasmante – qualche parola sul pacchetto, farcito, forse per aumentarne il peso specifico, con gli interventi di qualche famoso e quasi famoso che con gli shorts ha trafficato e cominciato la propria carriera, interventi piazzati prima e tra un film e l’altro. Nomi non tutti di primissimo piano, tra cui spiccano Steve McQueen, il regista di 12 anni schiavo, e Matthew Modine, oltre che attore anche regista di short films. Francamente, se ne poteva fare a meno, visto che non emergono dagli intervistati cose così interessanti e imperdibili. Altre considerazioni veloci: facile dire corto, ma qual è la misura standard? Non c’è. Si va da qualche minuto ai cinquanta e più (in questo lotto Oscar il range è tra un minimo di 7 e un massimo di 30), e dunque si tratta di categoria alquanto indefinita. Non pensate poi che corto equivalga a prodotto povero e di scarsi mezzi. Ovvio che i soldi investiti sono di molto inferiori a quelli di un lungo, ma vedendo questi cinque si resta impressionati dal dispiegamento di risorse – soprattutto negli shorts francese, danese e spagnolo – e dal numero di sponsor, produttori, garanti, erogatori di denaro pubblico e privato, e quant’altro. Altro che corti poveri ma belli. Spesso ricchi, e spesso belli per niente. Tutta la narrativa che si è imbastita intorno a questo segmento di cinema si compiace di descriverlo come palestra di talenti, terreno di coltura per audaci sperimentazioni, un cinema scarno, ascetico, indipendente e immune da contaminazioni commerciali, contrapposto a quello sporco, compromesso e piegato a logiche di mercato dei vari Hollywood e sotto Hollywood. Sarà il caso di liberarci presto da questi cliché e di guardare ai corti con un certo disincanto e distinguendo con cura. Intanto, ecco la mia sui 5 nominati all’Academy Award della categoria.
1) Pitääkö mun kaikki hoitaa? (Do I Have to Care of Everything?)
Il corto più corto tra quelli in corsa. Assai godibile, e altrettanto prevedibile. Una famigliola finlandese – mamma, babbo e due bambini – si prepara alla cerimonia di nozze di qualcuno che non sappiamo. Sono in grave ritardo, contrattempi e piccoli incidenti, il regalo già pronto che non si trova e l’immediato riciclo di una pianta di casa subito infiocchettata alla bisogna, i vestiti per i pargoli rimasti in lavatrice, mamma stressatissima (suo l’urlo del titolo, lanciato soprattutto all’indolente marito: ma devo pensare a tutto io?). Un interno domestico prossimo a trasformarsi in inferno. Con colpetto di scena finale. Insomma. Voto 5 e mezzo.
2) Helium
Regia di Anders Walter (Danimarca, 23 minuti)
3) Avant que de tout perdre (Just Before Lose Everything)
Il migliore dei cinque. Mezz’ora che ti incolla alla sedia, una tensione davvero insostenibile. Su un tema politicamente correttissimo, quello delle mogli maltrattate e minacciate da mariti violenti. Per metà film vediamo una donna terrorizzata non si sa da cosa, capiamo solo che deve fuggire, sparire subito, lei e i due figli. Una lotta contro il tempo, prima che l’invisibile nemico – che scopriremo essere il marito – si materializzi e la uccida. Concitazione. Lei che si licenzia dallo shopping center in cui lavora, cerca di tirar su un po’ di soldi, e intanto il consorte arriva, chiede di lei. L’abilità del regista sta nel non annoiarci con le prediche, ma nel calare un tema caldissimo e sensibile come quello della violenza domestica in una struttura narrativa da thriller. Eccellente. Il meglio piazzato per l’Oscar. Voto tra il 7 e l’8.
4) Aquel no era yo (That Wasn’t Me)
Regia di Esteban Crespo (Spagna, 24 minuti)
5) The Voorman Problem
Il migliore dopo il francese. Prodotto assai british, girato con il massimo della professionalità e il ricorso ad attori di fascia alta come Martin Freeman (il Bilbo di Lo Hobbit, nonché Watson nello Sherlock tv) e il Tom Hollander appena visto in Questione di tempo. Uno psichiatra vien chiamato dal direttore di un carcere perché si occupi di un caso disperato, quello del detenuto Voorman che non solo si crede Dio, ma è riuscito a convincere tutti i detenuti di esserlo. La terapia avrà esiti imprevedibili, e a prevalere sarà il pazzo. Pazzo? Con dialettica affilata Voorman cerca di convincere il bravo dottore di essere davvero Dio, e che la stesso scetticismo del medico è opera sua, creazione sua, come tutto l’universo del resto. “Dottore, le darò la prova di chi sono facendo sparire il Belgio”, e quando il terapeuta arriva a casa e consulta l’atlante, ecco che il Belgio non compare, la moglie non ne ha mai sentito parlare: “Belgio? Cos’è, uno di quegli strani e puzzolenti formaggi francesi?”. Il gioco scintillante del paradosso e del surreale condotto con britannicissima consequenzialità. Una scrittura altissima. Con il limite che è di tanto cinema britannco però, quello di mettersi al servizo della parola, di teatralizzarsi, di non credersi davvero cinema. Comunque ottimo. Un corto che usa la sua misura per trasformarsi in un folgorante, beffardo apologo. Voto 7 e mezzo.
I TRAILER
Pitääkö mun kaikki hoitaa? (Do I Have to Care of Everything?)
Helium
Avant que de tout perdre (Just Before Lose Everything)
Aquel no era yo (That Wasn’t Me)
The Voorman Problem