Everest, un film di Baltasar Kormákur. Con Josh Brolin, Jake Gyllenhaal, Jason Clarke, John Hawkes, Sam Worthington, Emily Watson, Robin Wright, Keira Knightley. Al cinema da giovedì 24 settembre 2015.
Il film che ha aperto la Mostra del cinema di Venezia. Meglio di quanto ci si aspettasse. Niente superomismi, niente smargiassate, niente scontri lassù sulle vette tra maschi alfa a chi ha la piccozza più grossa. Racconto assai umano di una vera doppia spedizione (neozelandese e americana) del 1966 travolta da una tempesta devastante. Si resta tutti appesi alle pareti ghiacciate, come i personaggi del film. Voto 7Lo slot di apertura della mostra di Venezia è alquanto ambito, dopo che a occuparlo negli ultimi due anni sono stati prima Gravity e poi Birdman, entrambi successi oltre ogni ragionevole aspettativa, e bagnati da una pioggia di Oscar. Chissà se Everest, il film inauguale di quest’anno, ripercorrerà la stessa traccia. Di sicuro è un buon prodotto, che potrebbe ben posizionarsi al box office e nella corsa all’imminente awards’ season. Da Baltasar Kormákur, capofila di quel cinema islandese che negli ulimi anni ha scalato posizioni su posizioni nel ranking internazionale, autore dei discreti ma non così speciali Contraband e Cani sciolti (tutti e due con Mark Wahlber, il suo attore di riferimento a Hollywood), mi aspettavo, vista la storia, un prodottaccio ad alta muscolarità, puro testosterone tra le nevi e i ghiacci del’Himalaya, tutto uno sontro tra maschi alfa inerpicati lassù a mostrare chi c’ha la piccozza più dura e grossa. Mi sbagliavo. Everest non è smaccatamente eroistico né tantomeno super eroistico, non mutua visualità ed esagitazioni ed esaherazioni dai videogames, non è un Mission: Impossible tra le vette, non trasforma la difficile scalata alla cima più alta del mondo – ispirata a una vera spedizione del 1996 assai tormentata e funestata da incidenti di vario tipo – in uno di quei congegni spettacolari cui il cinema pop(olare) ci ha abituati. Il bello sta nel suo collocarsi alla stessa altezza degli umani che, mossi da spinte diverse, tentano l’impresa. Il baricentro di Everest si situa esattamente nella pancia di quegli scalatori ora coraggiosi ora tremebondi, certo voglioso di saggiare i propri limiti e magari di valicarli, ma pur sempre schiacciati dal titanico paesaggio che li circonda e ingoia. Film corale, dove la palla del protagonismo passa veoce dall’uno all’altro, il tempo di mostrarci storie o frammenti di storie, per poi connetterli tutti in un ritratto di insieme.
1996. Un’agenzia neozelandese specializzata nel portare anche i comuni turisti sull’Everest (basta pagare il dovuto, non poco, e avere i fondamentali psicofisici a posto), e con parecchia esperienza accumulata nel settore, parte per il Nepal per l’ennesima spedizxione. Tutto è collaudato, ognuno del team sa quel che lo aspetta e quel che deve fare. Si va su, sempre più su. Si stabilisce un’alleanza con un’altra spedizione, stavolta americana, di Seattle, con a capo l’anarchico e hippizzante Scott Fisher. Sulle prime son scintille e bisticci con l’altro capocordata, il serio, iperprogrammato Rob, poi sarà tregua, colaborazione, nell’interesse di tutti. Ma – variabile non prevista – il meteo impazzisce, arriva la Grande Tempesta, e saranno disastri. Vittime, in entrambe le cordate. E non ditemi che è spoiler, giacché si tratta di storia vera ampiamente scritta, raccontata, riportata su tutti i media, e pure in un libro che sta alla base del film. La forza di Everest sta nello script, aderente ai fatti e alle persone senza smargiassate. La buona trama si slabbra solo qua e là, soprattutto negli interventi da casa delle due signore. Non si eccede in lacrime, ma un surplus di sentimentalismo c’è, e lo si sarebbe potuto evitare. Signore che sono poi Keira Knightley e Robin Wright, assai sacrificate e laterali. Un po’ più spazio, e una parte un po’ meno da tinca, ce l’ha Emily Watson quale respinsabile del campo base. Si resta appesi anche noi come i protagonisti alle pareti ghiacciate, trattenendo il fiato (mica per niente uno dei congegni narrativi creatori di suspense si chiama cliffhanger , e niente ci viene risparmiato di quel che ci è stato promsso. Corpi sospesi sul vuoto, abissi mincciosi, gelo che distrugge le estremità, mulinelli e nuvolaglie di neve e ghiaccio. E ganci che si staccano, ponti incerti sul vuoto, salvataggi last second. Girato sull’Hinmalaya e, in parte, sulle Alpi itao-austriache. Non si è esagerato, come sarebbe stato facile, in effettacci speciali e uso di computer graphics, il che restituisce a Everest una dose di realismo e credibilità superiore alla media. Uno di quei film maschili ma non machisti, alla Clint Eastwood per capirci. Clint l’avrebbe diretto magnificamente questa storia così nelle sue corde, ma Baltasar Kormákur se la cava degnamente.