1996. Un’agenzia neozelandese specializzata nel portare anche i comuni turisti sull’Everest (basta pagare il dovuto, non poco, e avere i fondamentali psicofisici a posto), e con parecchia esperienza accumulata nel settore, parte per il Nepal per l’ennesima spedizxione. Tutto è collaudato, ognuno del team sa quel che lo aspetta e quel che deve fare. Si va su, sempre più su. Si stabilisce un’alleanza con un’altra spedizione, stavolta americana, di Seattle, con a capo l’anarchico e hippizzante Scott Fisher. Sulle prime son scintille e bisticci con l’altro capocordata, il serio, iperprogrammato Rob, poi sarà tregua, colaborazione, nell’interesse di tutti. Ma – variabile non prevista – il meteo impazzisce, arriva la Grande Tempesta, e saranno disastri. Vittime, in entrambe le cordate. E non ditemi che è spoiler, giacché si tratta di storia vera ampiamente scritta, raccontata, riportata su tutti i media, e pure in un libro che sta alla base del film. La forza di Everest sta nello script, aderente ai fatti e alle persone senza smargiassate. La buona trama si slabbra solo qua e là, soprattutto negli interventi da casa delle due signore. Non si eccede in lacrime, ma un surplus di sentimentalismo c’è, e lo si sarebbe potuto evitare. Signore che sono poi Keira Knightley e Robin Wright, assai sacrificate e laterali. Un po’ più spazio, e una parte un po’ meno da tinca, ce l’ha Emily Watson quale respinsabile del campo base. Si resta appesi anche noi come i protagonisti alle pareti ghiacciate, trattenendo il fiato (mica per niente uno dei congegni narrativi creatori di suspense si chiama cliffhanger , e niente ci viene risparmiato di quel che ci è stato promsso. Corpi sospesi sul vuoto, abissi mincciosi, gelo che distrugge le estremità, mulinelli e nuvolaglie di neve e ghiaccio. E ganci che si staccano, ponti incerti sul vuoto, salvataggi last second. Girato sull’Hinmalaya e, in parte, sulle Alpi itao-austriache. Non si è esagerato, come sarebbe stato facile, in effettacci speciali e uso di computer graphics, il che restituisce a Everest una dose di realismo e credibilità superiore alla media. Uno di quei film maschili ma non machisti, alla Clint Eastwood per capirci. Clint l’avrebbe diretto magnificamente questa storia così nelle sue corde, ma Baltasar Kormákur se la cava degnamente.
Recensione: EVEREST. Un avventuroso umano, molto umano
Creato il 24 settembre 2015 da LuigilocatelliPotrebbero interessarti anche :