[Recensione] Exilium – L’inferno di Dante di Kim Paffenroth

Creato il 19 marzo 2013 da Queenseptienna @queenseptienna

Titolo: Exilium – L’inferno di Dante (originale: Valley of the Dead)
Autore: Kim Paffenroth
Traduzione di: F.G. Lo Polito, Marco Battaglia
Editore: Nero Press
ISBN: 9788890725937
Anno: 2012
Lingua: italiana
Numero pagine: 255
Prezzo: € 13,00
Genere: horror
Voto:

TramaCom’è possibile che il sommo poeta sia riuscito così bene a rendere nel suo Inferno un tale universo di dannazione, depravazione e violenza? Era solo una questione di intelligenza, abilità e fervida immaginazione o forse lui aveva visto qualcosa? E vi è mai capitato di leggere quei passi dell’Inferno in cui con vivida precisione descrive le figure dei dannati? E non avete mai pensato che i loro corpi martoriati e dilaniati, assomiglino in maniera impressionante a quelle figure di non morto così in voga nella narrativa attuale? Ebbene per il professor Paffenroth, autore di questo libro, la risposta a tutte queste affermazioni è sempre la stessa. Ed è sì. E così scrive il suo romanzo, lasciandosi guidare da questa suggestione che a poco a poco si trasforma in una storia originale e accattivante nella quale, più di una volta, si trovano stralci che rimandano a quell’universo complesso di metafore e allegorie note a chiunque abbia mai letto l’Inferno dantesco (dall’introduzione di Laura Platamone).

Il romanzo racconta le avventure vissute da Dante Alighieri, esiliato dalla città di Firenze, nella selva oscura. La selva conduce alle porte di un vero e proprio inferno, situato nell’Europa dell’Est. Una pestilenza inaudita sconvolge un intero popolo, conducendo alla morte. Qui però i morti infetti si ridestano in forma di zombie, insidiando i sopravvissuti. Dante, insieme a un’ improbabile compagnia, passo dopo passo tenterà di uscire da questa selva, fino a riveder le stelle.

Recensione: Sto cercando, nel mettere mano a queste riflessioni, di vincere le fortissime perplessità che sin dall’inizio hanno insidiato la lettura. Il romanzo non è scritto male, è piuttosto ricco e ha ritmo. Non posso nascondere una domanda martellante, nutrita da un velo di pregiudizio, sia pure, che non mi ha mai abbandonato: che ci azzecca Dante con l’horror?

Riconosco che la domanda sia sbagliata e un po’ tendenziosa. Cosa mai ha voluto esprimere Dante nella prima cantica della Commedia se non l’orrore?

Non mi convince tuttavia nemmeno l’altra domanda: Com’è possibile che il sommo poeta sia riuscito così bene a rendere nel suo Inferno un tale universo di dannazione, depravazione e violenza? Sa troppo di pretesto.

Voglio considerare in primo luogo il titolo scelto per la traduzione italiana: Exilium, che trovo assai indovinato. Dante è l’esiliato per eccellenza. Tutta la vita, da un certo punto in poi, l’ha trascorsa girovagando per l’Italia e forse in qualche area dell’Europa (chi può escluderlo?). Gli storici si domandano se abbia mai messo piede a Parigi, o addirittura ad Avignone. Effettivamente la selva oscura rappresenta il momento più drammatico, in sé la resa dei conti del suo esilio. Il titolo originale - Valley of the Dead - è evocativo per altri aspetti, ma forse un po’ fuorviante.

A ogni modo Dante non sembra essere entrato in quella selva per caso. L’ingresso in un luogo così insalubre si accompagna subito a una forma di disagio, di malessere interiore a causa dei compromessi cui è sceso in vita, tradendo valori che aveva cari e un certo modo di fare poesia.

Qua e là si colgono dei riferimenti, degli spunti che Dante farà propri nella Commedia che scriverà in seguito. Suggestiva è la descrizione di una tempesta primaverile in arrivo, e di una macchia nel cielo – un nugolo di stormi – che fugge di qua e di là, forse inutilmente. Suggestiva perché richiama quella del V canto dell’inferno (La bufera infernal, che mai non resta, /mena li spirti con la sua rapina; /voltando e percotendo li molesta).

Altro richiamo è lo scontro con uno zombie particolare, che biascica parole apparentemente senza senso e che sbarra la strada ai pellegrini. È Nembrot, che fa il verso a Pluto (del VII canto): «Pape Satàn, Pape Satàn aleppe!»

C’è un personaggio, Adam, un membro dell’Ordine della Morte Beata, che assomiglia, per certi versi, a Virgilio. Un po’ è la scorta del Poeta, gli illumina il cammino con le sue risposte assennate:

«Siamo davvero all’inferno, non è vero?» chiede il poeta con un esile e basso sussurro.
(…)
«Trascorriamo l’intera vita ai confini di luoghi infernali, proprio là dove possiamo vederli, sentirli, toccarli in qualsiasi momento, e là dove loro – ed è questa la cosa più importante – possono toccare noi. Dovresti saperlo, nella vita ci sono assaggi di beatitudine e ce ne sono di dannazione. Oggi, tu vedrai in pochissimo tempo molti di quest’ultimi. Vuoi accettare le benedizioni del Signore e poi rifiutare di guardare in faccia il male? O forse sentirti offeso dalla sua esistenza? Sei forse come la moglie di Giobbe? Non ti facevo così ingrato, fratello».

Se questo è vero, cioè se nello stesso luogo – in momenti diversi – si incontrano inferno e paradiso, non appare strana la presenza di un altro membro della compagnia: Bogdana, una ragazza combattiva e pratica, in attesa di un bimbo, che sembra avere gli occhi di Beatrice e che veglia sul cammino del Poeta.

A parte i richiami, i riferimenti che si possono rintracciare qua e là, segno che l’autore si è documentato, ha letto, ha ben costruito il suo mondo, ho faticato a comprendere il senso del romanzo.

Credo di averlo trovato, anche se lo ritengo un po’ tirato per i capelli e quasi banale, insufficiente a giustificare la storia sia pur ricca e ben congegnata.

Dante Alighieri è il catalizzatore delle vicende, l’inferno in cui si trova non sembra richiamare quello letterario, specialmente se pretendiamo di assimilare gli zombie ai dannati che il Poeta incontra nella prima cantica della Commedia. Non è questa la lettura che suggerisce la stessa introduzione?

Dobbiamo intenderci comunque su una cosa: in questo romanzo, come nella Commedia, l’Inferno di Dante è un inferno di uomini. Non di zombie. I veri mostri sono i vivi, con il loro freddo raziocinio, i quali a poco a poco imparano ad approfittarsi di queste creature, in fondo senza coscienza: le imprigionano per sfogare il proprio istinto di vendetta, o addirittura vi ricorrono come schiavi:

«Ho trovato alcuni miei amici e anche a loro è piaciuta l’idea. Ci avrebbe dato qualcosa da fare, un po’ di sollievo. E così abbiamo portato qui alcune di queste creature, scelte tra quelle che non abbiamo ucciso subito e che ci hanno procurato una perdita e un dolore particolari. Ora sappiamo che soffriranno per sempre. La nostra vendetta contro di loro non finirà mai. Mai».

Superfluo dire che  proprio questa genia di uomini ha sottratto Dante alla sua Firenze, ammorbando il mondo che l’ha esiliato. Essa verrà condannata nell’Inferno della Commedia che conosciamo.


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