Luigi Pirandello è uno degli scrittori più noti e studiati dai giovani. “Il fu Mattia Pascal”, “Uno nessuno e centomila”, il “Così è (se vi pare)” e i “Sei personaggi in cerca d’autore” hanno popolato le serate di molti di noi. Lo scrittore, poeta e drammaturgo nato in provincia di Agrigento in pieno ‘800 è stato un autore prolifico e acuto, all’avanguardia, con la battuta sagace sempre pronta e una produzione che spazia dal dramma alla commedia. Era un grande osservatore della realtà ed era un fiume in piena. Nei suoi testi le umane sofferenze e debolezze erano tangibili e la voglia di analizzare e capire, pure. Tra le sue opere, forse meno studiate tra i banchi, c’è “L’innesto”. Un dramma forte, scomodo, soprattutto quando fu portato in scena (era il 1919).
È la storia di Laura che un giorno viene aggredita. La donna è felicemente sposata con Giorgio, il quale da quel momento vive la violenza subita dalla moglie come una ferita indelebile e una sfida al suo essere uomo, marito e amante. Nonostante la donna si dedichi a lui con tutta sé stessa, che lo ami ancor più di prima, il giorno in cui scopre di essere incinta, il rapporto si incrina. Lo scontro è tra l’orgoglio ferito di Giorgio e la voglia di Laura di essere prima di tutto una madre.
PHOTO: courtesy of Lucky Red
Mentre la donna si proietta verso il futuro e dimentica il passato, il marito rimane ancorato a fatti del passato. Lei focalizza sulla nuova vita, lui sulla vecchia. La maternità come vittoria sulle prove imposte dal fato, si scontra con una paternità vissuta come una sfida. Il rapporto tra i due va alla deriva, nessuno si muove dalle proprie posizioni, sino a quando qualcosa succede e Giorgio vede – per la prima volta – con gli occhi di Laura, preludio di un epilogo dal forte impatto emotivo.
Una storia davvero attuale, che pone quesiti etici, morali, intimi, difficili per tutti. Un testo in un certo senso doppiamente complicato da portare su grande schermo: da un lato c’è il pensiero comune e dall’altro ci sono le imponenti parole scritte da un premio Nobel. Michele Placido, attore, autore e regista, stimato da Nord a Sud della Penisola, formatosi in teatro, accetta la sfida, e porta al cinema una versione attualizzata del racconto. I nomi sono gli stessi, i luoghi e i dettagli si modificano. Oggi siamo a Bisceglie, in Puglia. Un paese dominato dalla pietra, con vicoli stretti e scorci bucolici, luogo ideale per una coppia come Giorgio e Laura, sposi innamorati, alla ricerca di un figlio che per ora non arriva.
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Nei panni dei due protagonisti troviamo Raoul Bova e Ambra Angiolini, due attori che hanno già lavorato insieme e che quando recitano diretti da registi di polso, riescono a superarsi e conquistare il favore del pubblico. Qui decisivi saranno proprio i nomi del cast e la loro risonanza tra il pubblico, perché il film, nonostante l’ottimo testo alla base, le migliori intenzioni e l’impegno di tutti, non raggiunge lo scopo. Annoiati, alcuni addormentati, in sala seguiamo due attori erranti, udiamo battute poco realistiche, assistiamo a litigi e sofferenze sussurrati anche all’interno delle mura domestiche. L’impossibile dilaga e il pathos è talmente flebile da non essere percepito.
Le donne comprendono la situazione e, a scena aperta, lanciano consigli istintivi al povera Laura/Ambra. Giorgio, invece, è così poco efficace da far sorgere il dubbio che Bova fosse scosso dal suo personaggio. I due vanno avanti/indietro in un tira e molla che lascia dubbiosi, fanno un girotondo poco utile alla trama e alla suspense che si tenta di costruire minuto dopo minuto con inquadrature schiacciate, camera tremula e primi piani che ci ricordano altro genere, ma quando novanta minuti scarsi sono percepiti come più di duecento, allora qualcosa non sta andando per il verso giusto. La sensazione è di aver visto la versione nobile di una fiction destinata al prime time dell’ammiraglia RAI. Peccato perché la trama era in grado di regalarci splendidi fuochi d’artificio.
Vissia Menza