Se si parte dal presupposto, generalmente accettato, che il compito principe di un film dell’orrore sia spaventare lo spettatore, bisogna ammettere che Open Grave, nonostante si definisca tale, non è, nemmeno lontanamente, un horror. Il solo elemento che evoca un senso di paura o ansia, infatti, è il titolo, Tomba Aperta in italiano, che però, dopo una breve apparizione a due minuti dall’inizio, svanisce, portandosi via la sua aura di tensione. Ciò che resta sullo schermo, invece, è un intreccio un po’ piatto che non riesce mai a decollare veramente.
Jonah (William Green), ferito e senza memoria, riprende coscienza in una fossa comune piena di cadaveri: non sa dove sia e nemmeno chi o cosa abbia falcidiato tutte le persona senza vita intorno a lui. Grazie all’aiuto di una giovane donna (Josie Ho), si libera e trova riparo in uno chalet già popolato da altri cinque individui che, come lui, non ricordano nulla, nemmeno la loro identità. Solo la ragazza cinese andata in suo soccorso sembra essere consapevole degli eventi che hanno condotto lì l’eterogeneo gruppetto, ma, essendo muta, non può né spiegare la situazione, né avvisare i suoi compagni di sventura degli eventuali pericoli nascosti all’interno e all’esterno della casa.
Jonah e i suoi, in un crescendo di diffidenza reciproca dovuta al ritrovamento di altri morti nelle vicinanze del rifugio, devono allora scoprire da soli ciò che è accaduto loro. Ma è solo quando Lukas (Thomas Kretschmann), il leader del gruppo, accusa apertamente Jonah di essere un assassino, che i ricordi del passato emergono definitivamente, facendo affiorare la terribile verità della loro condizione.
L’immancabile colpo di scena finale, funzionale ai fini della trama poiché permette di chiudere il cerchio là dove si era aperto, giunge come una benedizione non solo poiché mette al loro posto tutte le tessere di un difficile puzzle, ma soprattutto perché decreta la fine del film.
Purtroppo, infatti, in Open Grave nulla funziona a dovere e le grosse lacune nella realizzazione di quella che potrebbe essere un’ottima idea sono l’ennesima prova che al cinema niente si improvvisa.
La sceneggiatura dei fratelli Eddie e Chris Borey, con una trovata infelice dietro l’altra, annacqua un soggetto potenzialmente interessante fino a renderlo completamente insipido e privo di ritmo, scivolando soprattutto sulla caratterizzazione quasi caricaturale dei personaggi. L’agire forzato dei protagonisti, sottolineato da un’interpretazione non sempre all’altezza, e gli effetti sonori esageratamente marcati, rischiano a più riprese di provocare un cortocircuito nello spettatore e, talvolta, di suscitare risate anziché sussulti.
Infine la regia di Gonzalo López-Gallego -che con le sue inquadrature ampie e luminose fa almeno apprezzare le bellissime location ungheresi- e un montaggio troppo lineare, concorrono ad appiattire e a rendere poco incisiva l’intera pellicola.
L’ultima produzione della Atlas Independent, in definitiva, è lungometraggio ibrido che non appassiona né intriga, non coinvolge né turba.
Insomma, se avete il terrore degli horror ma i vostri amici amanti del genere insistono perché cediate almeno una volta alla loro passione, portateli a vedere questo film: loro forse resteranno delusi, ma voi uscirete dalla sala con i nervi illesi!
Nei cinema italiani dal 14 agosto.
di Marta Pirola