Recensione: FINO A QUI TUTTO BENE. Italiano, indipendente, assai divertente. La meglio gioventù tra incertezze e goliardia

Creato il 20 marzo 2015 da Luigilocatelli

Fino a qui tutto bene, un film di Roan Johnson. Con Alessio Vassallo, Paolo Cioni, Silvia D’Amico, Guglielmo Favilla, Melissa Anna Bartolini, Isabella Ragonese. Uscito giovedì 12 marzo.
Il regista Roan Johnson ci racconta di un gruppo di amici ex studenti che si ritrovano a Pisa per sbaraccare la casa in cui han vissuto insieme per anni. E son ricordi, bilanci dolceamari, scazzi e lazzi. Mentre la vita comincia a presentare i conti. Tutto girato come in presa diretta, al massimo della spontaneità. Divertente, fresco, diverso dal nostro medio cinema. Ma anche un film Peter Pan che, come i suoi ragazzi, non si decide a crescere davvero. Scena di culto: un cocomero usato come oggetto sessuale. Voto 7 meno
Piccolo film italiano indipendentissimo, girato da quel Roan Johnson – regista che si era fatto conoscere l’altr’anno con I primi della lista – con l’aiuto di una crew e di un gruppo di attori-amici, e la voglia matta di farcela nonostante – anzi “in culo a” – la scarsità di mezzi. Il risultato è una commedia fresca fresca in presa diretta sulla vita, con l’immediatezza e la sincerità e anche la selvaggeria, la sbracataggine, il tono ribaldo di un home video giovanottesco. Aggiungeteci lo spirito toscano profuso in ogni scena – siamo a Pisa, città in cui il regista credo abbia vissuto – e forse vi farete un’idea di cosa sia Fino a qui tutto bene. Indie, schietto  e ruspante, un film in cui il budget compresso e le risorse limitate (pare ci fosse solo una cinecamera a disposizione) son diventati un sano stimolo a ingegnarsi e praticare l’arte di arrangiarsi. Difficile non affezionarsi a un prodotto così, e fa piacere che all’ultimo festival di Roma, lo scorso novembre, il pubblico lo abbia premiato. Siamo all’ennesimo Addio giovinezza, a un gruppo di giovani uomini e giovani donne beccati nel momento in cui devono decidersi a prendere sul serio la vita, anche perché sono i fatti, gli eventi, le cose, a metterli di fronte a scelte non più procastinabili. Vincenzo, Paolo, Ilaria, Andrea e Francesca si ritrovano a Pisa per sgomberare la casa in affitto (con meravigliosa vista sull’Arno e torre e battistero) dove han vissuto insieme da studenti e precari di vari mestieri, e che adesso devono lasciare. Ciascuno ha i suoi guai, i suoi dubbi e tormenti, ciascuno si trova di fronte a una biforcazione e ha da decidere dove andare, cosa lasciare. Una si è scoperta incinta di uno stronzo che non ha nessuna intenzione di mollare la moglie per lei, e non sa come dirlo ai genitori là in Ciociaria. Un paio del gruppo continuano a far teatro di nicchia, sperimentale, di ricerca, insomma quella cosa lì che in pochi vanno a vedere, sempre più dubbiosi del proprio talento. Uno, vulcanologo, si vede offrire un posto di associato da un’università islandese e sa che, se accetterà, la sua vita ne sarà stravolta. Intanto si cazzeggia, si litiga, si sbevazza, si fuma, ci si sfotte a vicenda, si prepara la festa di addio alla casa, si cerca di ammazzare il tempo. Tutto un ricordare le cose fatte insieme, ma anche uno scazzarsi e un rinfacciarsi. Un bilancio fatto senza metterla giù dura che forse è anche il bilancio di una generazione (e però grazie a Dio non si sociologizza, non si storicizza, non si generalizza impropriamente, ma ci si attiene ai fatti, al microcosmo raccontato). Molto si parla di precariato, assenza di prospettive e certezze, di un paese che tiene a mollo i suoi giovani e li costringe alla fuga, o all’inazione. Naturalmente, come in ogni Grande freddo, e anche questo a modo suo lo è, spunta fuori il ricordo di un amico morto, in questo caso morto l’anno prima per suicidio mascherato da incidente stradale. La bravura di Roan Johnson – autore italianissimo di padre inglese – sta nell’orchestrare i suoi Peter Pan maschili e femminili al massimo della naturalezza e della credibilità, illudendoci che non di rappresentazione si tratti il suo film, ma di vita ripresa e registrata nel suo farsi. La camera è mobile, sinuosa, per scelta di linguaggio e di stile, ma anche per necessità. A mancare è un’adeguata strutturazione drammaturgica: il racconto non ha mai una vera progressione, i personaggi restano sempre al punto di partenza, bloccati dentro se stessi senza mai un cambiamento, una trasformazione seppur minima. Film orizzontale e circolare, dove hai l’impressione di ritiornare sempre allo stesso punto. Tant’è che quando Roan Johnson è costretto ad arrivare al finale, si inventa una scena di chiusura che non chiude niente ed è la cosa meno riuscita del film. In fondo, Fino a qui tutto bene resta inprigionato nella irresolutezza, nella incapacità di decidere e di crescere dei suoi personaggi. Un film-Peter Pan, anche divertente, ma irrisolto. Con una costruzione a episodi, per accumulo di fatti e fatterelli e aneddoti che si rifiuta di configiurarsi in una forma chiusa. Mica per niente – apprendiamo dal pressbook – il film nasce da una ricerca condotta su modi e stili del vivere degli studenti dell’università di Pisa, e alcune delle testimonianze raccolte son poi entrate tali e quali nella storia. Chissà se è così anche per il più veracemente toscano e ribaldo degli episodi, quello in cui uno del gruppo si tromba per scommessa un cocomero, si spera per lui adeguatamente maturo. Sarà un caso, ma proprio in un altro film toscano di quest’anno, pure girato nei dintorni di Pisa, Short Skin (presentato alla Berlinale nella sezione Generation+ e spero di prossima uscita in sala), c’è un’altra trombata impropria, allorché il ragazzino protagonista si allena a perdere la verginità facendosi un polpo. Puro Boccaccio.


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