Franny (The Benefactor), un film di Andrew Renzi. Con Richard Gere, Dakota Fanning, Theo James, Dylan Baker, Cheryl Hines.
Perché il bilionario Franny copre di soldi la giovane Olivia e il suo troppo belloccio marito Luke? Che piano ha? Cosa c’è sotto? Franny all’inizio ce la fa a suscitare una qualche curiosità e attesa, peccato che poi si sfilacci in un racconto-non racconto dove non succede niente fino a uno dei peggiori finali del cinema recente. E qui, che già si pregustava un torbido intreccio anni Settanta di manipolazioni e contorte seduzioni, si resta arrabbiati e delusi. Si salva solo, per la gioia del suo zoccolo durissimo di adoranti, Richard Gere. Voto 3 (però 7 a Richard Gere)
L’Italia continua a essere paese assai comprensivo e accogliente non solo per Woody Allen, i cui film, belli e brutti, qui realizzano sempre incassi proporzionalmente ben superiori a quelli ottenuti in patria o negli altri paesi europei, ma anche per Richard Gere. Il quale, a 66 anni e inquartato assai rispetto al giovane ed esplosivamente sexy moraccione che si conobbe ai tempi di In cerca di Mr. Goodbar, I giorni del cielo, Una strada chiamata domani, può contare da noi su uno zoccolo durissimo e intemerato di golosi e maturi fans, perlopiù di sesso femminile ma anche di ogni altro genere, che per lui son pronti a staccare il biglietto – meglio se con riduzione anziani – a prescindere dal film. Pur avviandosi ai settant’anni il signor Gere, peraltro persona assai amabile e senza le egolatrie di tante altre star, conserva ascendente erotico e capacità di suscitare tempeste ormonali nelle sue adoranti, anche se nelle Gere-addicted gli ormoni non son più quelli dei tempi belli. All’anteprima stampa di Franny la mia amica O, che scrive di food ma anche di quelle cose varie e indefinite che van sotto l’etichetta lifestyles per un molto seguito sito femminile, ha ammesso di essere venuta solo per lui, per il divino, e quando io malignamente le ricordo come il Richard dovrebbe ormai godere per limiti di età dell’agognata pensione di sex-symbol lei quasi si indigna, sostenendo che le lettrici continuano a esserne pazze (American Gigolo e Pretty Woman le hanno marchiate indebilmente) e che basta piazzare il suo nome nel titolo di un pezzo per far schizzare i click. Un click bait, povero Richard. Che il fenomeno sia perlopiù italiano lo dimostrano le cifre al nostro box office di questo balordo Franny (in origine Il benefattore), produzione ultraindipendente la cui sola attrazione è lui e lui soltanto, firmato da un giovane regista americano uscito dall’incubatrice dei Sundance Labs. E sono incassi che da noi, in due settimane (e nonostante l’occupazione militare delle sale da parte di Star Wars e Quo vado?) hanno quasi raggiunto i due milioni di euro, e scusate se di questi tempi se è poco, tenendo anche conto dell’oggettiva pochezza del prodotto. Ma la sorpresa la si ha constatando, sul sito box office Mojo, come Franny i suoi incassi li abbia raccolti soltanto in Italia, unico paese in cui è uscito, mentre – benché presentato in prima mondiale parecchi mesi fa al Tribeca festival di New York – negli Usa non ha ancora trovato un distributore disposto a crederci e a portarlo nei cinema (e Franny risulta al momento assente anche nel listone delle uscite Usa dei mesi prossimi). Quanto al resto del mondo, zero. Forse altrove son diffidenti verso di lui dopo il flop abbastanza inatteso di Ritorno al Marigold Hotel, sequel del trionfo monetario che sappiamo, dove alla new entry Richard Gere era affidata la mission di rivitalizzare un attimo il gerontocomio indiano e colpire al cuore e agli ormoni le spettatrici sessantenni e pure settantenni all over the world, target di riferimento del prodotto. Con la memorabile battuta del giovane portiere protagonista che lo vorrebbe come nuovo sposo di mamma e che, viste le perplessità e cautele di lei a impegnarsi, erompe in un “e fa presto, che se fossi io una donna me lo porterei subito a letto”. Benché in quel museo di sarcofagi egizi del Marigold Hotel lui abbia fatto la sua figura mostrando di essere di carne e ossa e non ancora una mummia bendata, Gere non è riuscito a trasformare la stanca operazione in un successo, e questo potrebbe aver ritoccato all’ingiù le sue quotazioni presso produttori e distributori. Epperò gli resta l’Italia, periferica provincia sempre fedele a un re dal sessappiglio stanco ma ancora vivo. A ingolosirsene temo siano ormai solo le spettatrici da Trieste in giù (cit. Raffaella Carrà). Ma lui è all’altezza della devozione tributatagli? Bisogna dire che sì, anche in questo Franny nella parte di un misterioso quanto eccentrico bilionario americano assai corroso dentro da un oscuro senso di colpa (di cui scopriremo il motivo) e un bel po’ lasciatosi andare tipo vecchio frikkettone imbarbonito con capello lungo e mal lavato e orrendi stracci addosso, Richard domina la scena eccome, pietrificando e annullando la coppietta dei coprotagonisti giovani-e-carucci (e incolori) Dakota Fanning e Theo James. Che anche quando si guarda allo specchio desnudo con tutta quella massa muscolar-corporea ormai debordante e non più così compatta, Gere resta di una fisicità indiscutibile, capace di risucchiare la cinepresa verso di sé come pochi. Con quel corpo massiccio e maestoso da patriarca, con quei capelli bianchi e il naso importante (sempre stato grosso), lo diresti già pronto per una nuova galleria di personaggi di grandissimi vecchi ora bizzosi ora magnanimi ora crudeli (e intanto in queste feste sarebbe stato pure un magnifico Santa Claus: nessuno ci ha pensato?). Piaccia o meno, resta lui l’unico motivo per cui valga la pensa andarsene a vedere Franny, perché il resto fa abbastanza pena. Uno di quei film di morbose e ambigue atmosfere che sembrano venire dagli anni Settanta, che lasciano intuire sotto la prima e levigata apparenza delle cose abissi di lascivia e perversioni e tortuose relazioni erotiche e omoerotiche, tutti giocati tra il (poco) detto e il (molto) non detto. Solo che non è più tempo di chiariscuri e allusioni, viviamo nella dittatura della trasparenza , dell’obligo a dire e esplicitare, dei messaggio a una sola e piatta dimensione seamtica, sicché è quasi impossibile oggi portare felicemente in porto una narrazione che si muova tra testi e ramificazioni di sottotesti. Il regista Andrew Renzi sembra all’inizio provarci, ma abbandona subito l’impresa. Per via che oggi la sensibilità collettiva è quella che è e non c’è più un pubblico per certe operazioni, ma anche, temo, perché lui non ha il coraggio e le idee chiare, o le idee adeguate a restituire l’oscurità la complessità, apppiattendo il tutto in un penoso racconto-non racconto che, se all’inizio ci instilla qualche interessante domanda e titilla la nostra curiosità, poi non dà risposte e non va nessuna parte. Poche volte ho visto al cinema, almeno negli ultimi anni, un film più confuso e sciapo di Franny. Che è l’affettuosa contrazione di Francis, tale il nome del protagonista bilionario, in dollari e anche in euro, che per la verità non si capisce come i soldi li abbia guadagnati visto che conduce una vita scioperata lasciandosi andare a ogni possibile capriccio del momento e non ha altra attività se non quella di fare beneficienza, avendo costruito un ospedale per la cura dei bisognosi. Sappiamo che è stato coinvolto in un terribile incidente stradale avvenuto una ventina di anni prima (e mica è spoiler, santo Dio, è l’antefatto da cui prende il via il film) cui lui è sopravvissuto ma dove han perso la vita i suoi due migliori amici Bobby e Mia. Trauma che gli ha segnato la vita. Da allora si è è autorecluso, è duventato uno di quei solitari misogini che incutono sempre una certa paura, si è lasciato andare nel fisico e nei modi, tormentato da una gamba malmessa e dolori che tiene sotto controllo con dosi sempre più forti di morfina. Un vecchio freak, solo con molti, molti soldi. Una figura dominante e tirannica che in altri tempi sarebbe toccata a Orson Welles e che Richard Gere fa sua in un processo di immedesimazione molto vecchio Metodo impressionante e riuscita. Succede che torna a farsi viva con Franny (perché bisognosa di soldi) Olivia, la figlia rimasta orfana dei suoi due amici defunti, ragazzina cui lui era affezionatissimo. Adesso è una giovane donna sposata con un medico, e pure incinta. Se la passano male, lui non ha un lavoro e debiti universitari spropositati da pagare (là funziona così) e insomma, caro Franny, perché non ci dai una mano? E lui gliela dà, come no, felice di avere ritrovato la sua piccola orsacchiottina-bambolina. Diventerà per la giovane coppia una figura protettiva poi iperprotettiva poi ingombrante poi invadente, fino a essere una minaccia. Li sistema in una casa (quella che era stata dei genitori di Olivia) che i due mai avrebbero potuto permettersi da soli, trova per Luke un lavoro nell’ospedale di cui è il benefattore. E ci mette soldi su soldi per rendere sempre più facile la vita a quei due ragazzi. Già, ma perché lo fa? Cosa vuola davvero Franny da Olivia e dal suo caruccio, troppo caruccio marito Luke? Con tanto di manovre ambigue, con lui che una notte si infila nel talamo coniugale dei due (ma non succederà niente, ahinoi). A muoverlo è forse l’ebbrezza di poter disporre con il denaro delle vite degi altri, di plasmarle e tenerle sotto controllo? Come quegli dei del’Olimpo che si divertivano a manovrare dai loro picchi celesti i poveri umani là in basso. O forse no, non è un gioco di puro potere e asservimento, forse Franny è gay e vuole scoparsi il belloccio Luke, o forse vorrebbe instaurare con loro un ménage à trois. Quando scopriamo cosa successe davvero nel maledetto incidente, ci si chiede cosa mai lo legasse allora ai due amici (amava Mia? o amava Bob? o tutti e due?), e se per caso non voglia replicare quella strana relazione con la loro figlia Olivia e il suo compagno. Devo dire che Franny per una mezz’ora una qualche tensione risce e costruirla, titillando la nostra curiosità e instillandoci domande e dubbi. Il guaio è che poi non succede niente. Zero. Non si ha il pur minimo sviluppo narrativo e il comportamento di Franny resta inesplicato fino alla fine, comunicandoci un senso di vuoto e inverosimiglianza. Se solo Andrew Renzi (non credo parente) avesse avuto le palle e ci avesse confezionato un horror psicologico (tra Rosemary’s Baby e Umberto Lenzi), o un torbido intreccio erotico a tre lati, o un perverso gioco di potere, Franny sarebbe potuto diventare qualcosa di interessante, fors’anche importante. Invece resta un’ocasione mancata. Con un finale che grida vendetta e porta in zona rosa e di happy end quella che era cominciata come una partita di manipolazione psicologica e di assoggettamento. Resta Richard Gere, a tenere in piedi da solo questa balorda operazione. Grandioso quando fa del suo Franny un vecchio ragazzaccio anni Settanta e Settanta che ha tutto provato, fumato, inalato e iniettato, che ha sperimentato tra le lenzuola ogni possibile variazion e adesso si trova a fare i conti con un corpo che si sfascia e una vita che se ne va. Rappresentazione abbastanza impressionante di quel che si avviano a diventare i molti baby boomers la cui testa è rimasta invastrata alla stagione dei Settanta quando tutto si poteva provare e sperimentare. Nessuno avrebbe potuto interpretare Franny se non Richard Gere, ma ve li immaginate Robert DeNiro e Al Pacino? Solo lui, che è sempre stata una star defilata e a modo suo un outsider, portandosi dietro fino dai suoi esordi un che del maledettismo della scena underground ed esistenzialmente alternativa, poteva essere credibile in un film così.