Gli ultimi saranno ultimi, un film di Massimiliano Bruno. Con Paola Cortellesi, Alessandro Gassmann, Fabrizio Bentivoglio, Ilaria Spada, Stefano Fresi.
All’estero su crisi economica e perdita del lavoro han realizzato film come Due giorni, una notte e La legge del mercato, noi Gli ultimi saranno ultimi. Storia di Luciana che, licenziata causa gravidanza, si ribella a modo suo. Siamo tra classica commedia vernacolare (in certi momenti sembra di stare in una riedizione di Pane, amore e fantasia) e dramma sociale di denuncia. Peccato che i due registri non si incastrino mai. E poi, quanto populismo. Gran performance di Paola Cortellesi, che si candida a Monica Vitti dei giorni nostri. Voto 5+
Se si può parlare di populismo a proposito di un film, questo è il caso. Perché Gli ultimi saranno ultimi è la rigida applicazione narrativa dello schema manicheo nel quale il popolo (in alternativa, a seconda dell’ideologia o clima culturale di riferimento: i poveri, gli sfruttati, gli umiliati e offesi, gli ultimi, i diseredati, i proletari, i sottoproletari) ci ha sempre ragione essendo di sua natura – adesso si direbbe nelle conversazioni da frecciarossa o da aeroporto in attesa di imbarco: avendo iscritto nel dna – di massima bontà e immacolata innocenza, mentre ad aver torto marcio sono invariabilmente i ricchi, malvagi di natura. Categoria per rientrare nella quale peraltro può bastare un pugno di euro in banca, mica chissà quali capitali. Populismo malattia genetica della nostra classe politica, della nostra antropologia nazionale e pure del nostro cinema, sempre tentato dallo straccionismo, dal miserabilismo, dall’angelizzazione di chi meno ha e dalla demononizzazione di chi invece possiede. Salvo rare eccezioni, e mi viene in mente Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola. Adesso che siamo in evidente declino economico si aggiorna solo il modulo narrativo alla disoccupazione crescente, alle fabbriche chiuse o delocalizzate, ai contratti a tempo assai determinato ecc. ecc., mantenendolo però inalterato nei suoi fondamenti. Vedere Gli ultimi saranno gli ultimi (capovolgimento ultra-populista della massima evangelica) per credere. Un film che, nella forma in apparenza leggera della commedia all’italiana appena appena rispolverata ma intatta nei suoi vizi vernacolari e plebei, mette in scena un racconto didascalico, così a tesi che neanche il Brecht più ferrigno, cercando di sposare malamente risate crasse a predica politica o, se preferite, all’impegno. Che è di denunciare come si attui e si perpetri oggi lo sfruttamento ai danni dei poveracci, incarnati emblematicissimamente da Luciana (Paola Cortellesi), altolaziale maritata a un tizio fico ma parassita e fanigottone (Alessandro Gassmann), operaia in un’improbabile fabbrica di parrucche di probabile proprietà veneto-nordestica, e precaria con contratti a termine necessitanti continui rinnovi. La licenzieranno quando veranno sapere che è incinta (gravidanza arrivata dopo anni e anni di tentativi falliti). Comincia così, con al centro Luciana e la sua progressiva caduta in depressione finanziaria e psichica, un qualcosa che è un po’ dramma e un po’ (troppo) commedia, due registri che il regista Massimiliano Bruno non riesce mai a fondere o almeno a tenere insieme. Si va avanti a strattoni, un po’ ridendo e un po’ lacrimando, con figure e figurine a fare da coro, la sorella di Luciana e la sua famiglia, la parrucchiera-trans Manuela/Manuel, la mangiauomini di paese, e via così in un panorama umano alquanto déjà vu. Siamo in un bellissimo borgo sul lago di Bracciano (il film è girato ad Anguillara e però ‘ogni rigferimento è puramente casuale’) con i suoi riti da piccola provincia, i caffé pigri, i ristoranti rimodernati giusto il tanto che basta per stare al passo con le mode. Un microcosmo che la commedia italiana nel suo esistere pluridecennale ha raccontato infinite volte, e a me viene in mente, per dire, Pane, amore e fantasia. Di cui trapela qui qualche (intenzionale?) citazione, dalla collocazione laziale alla femmina un filo chiacchierata che là era la levatrice e qui la coiffeuse trans, più il carabiniere venuto dal Nord che in Gli ultimi saranno gli ultimi diventa un poliziotto, e però, esattamente come l’appuntato di Pane, amore e fantasia, parlante con pesante accento veneto, a dimostrare che certi macchiettoni nel nostro cinema resistono tali e quali a mezzo secolo e più di distanza. Il poliziotto (Fabrizio Bentivoglio) è a tutti gli effetti narratologici un co-protagonista, interpretando un personaggio di agente trasferito per punizione ‘causa comportamento ignominioso e vigliacco’ la cui traiettoria sembra per tutto il film srotolarsi indipendente da quella di Luciana (Paola Cortellesi), per poi incrociarla nel drammaticissimo sottofinale, come in un Iñarritu-Arriaga spostato tra Anguillara e Sori. Licenziata, Luciana finirà col ribellarsi prendendo una decisione pazza, la cui responsabilità è ovviamente fatta risalire non a lei (quando mai italiani e cinema italiano hanno creduto al libero arbitrio e alla responsabilità individuale), ma ai perfidi padroni che l’han ridotta alla diperazione. Il romanzo anticapitalista è declinato secondo un’ideologia vetusta e forme rozze, i ricchi sono arroganti e stronzi e disumani in quanto ricchi, Luciana in quanto povera non può che essere solo vittima innocente, e se fa qualche cazzata è perché i capitalisti ce l’hanno spinta. Sfumature zero. Negli ultimi anni abbiamo visto, sulla crisi economica e la perdita del lavoro, un capo d’opera come Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne e l’amarissimo e bello La legge del mercato, il primo belga il secondo francese, il nostro cinema ha prodotto Gli ultimi saranno gli ultimi, e lascio a voi il confronto. C’è solo un momento in cui il film di Massimiliano Bruno riesce a uscire dal patetismo, e anche dallo schematismo, per farsi davvero registrazione implacabile e crudele del reale, ed è quando Luciana si rende conto che a denunciare la sua gravidanza all’azienda è stata la ragazzina che lei stessa ha aiutato a entrare in fabbrica, e che adesso vuol prendere il suo posto. Un’annotazione marginale, ma che ce la fa a a turbarci più di tutta la passione (via crucis?) di troppe urla e troppi strepiti della reietta Luciana messa in scena da Bruno e recitata da una peraltro bravissima Paola Cortellesi. Il sottofinale, quando tutti i destini si intersecano e parte un colpo di pistola, è molto ben orchestrato da Massimiliano Bruno, con quel correre e cercarsi affannosamente nel paese percorso dalla sfilata in costume, citando, mi pare, la scena della processione di Viaggio in Italia di Rossellini. Ma tutto vien rovinata dalle ultimissime inquadrature che ogni cosa acconciano e sistemano eliminando quel poco di perturbante che il film era riuscito a far passare. In un accomodamento italian style che si poteva, si doveva, evitare. Perché il coraggio del non-lieto fine bisogna pur averlo, quando si vuol denunciare e stigmatizzare. Domanda: ma davvero oggi nell’Alto Lazio si parla con quella cadenza vernacolare e quei tic linguistici da mezzo secolo fa? A me pare impossibile. Ma non sono dell’Alto Lazio.