Recensione. HUNGER GAMES: il canto della rivolta – parte 1

Creato il 20 novembre 2014 da Luigilocatelli

Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte 1 (Hunger Games – Mockingjay part 1). Un film di Francis Lawrence. Con Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Elizabeth Banks, Philip Seymour Hoffman, Julianne Moore, Donald Sutherland, Stanley Tucci, Woody HarrelsonDa giovedì 20 novembre al cinema.
Niente più giochi gladiatori. In questo terzo capitolo la narrazione si focalizza sulla rivolta di popolo contro il regime di Capitol City. E a fare da simbolo e araldo della lotta è la Katniss di Jennifer Lawrence.  Film un po’ meno young adult e un po’ più adult dei precedenti. Fitto di richiami agli orrori del Novecento, le guerre, gli opposti totalitarismi, gli universi concentrazionari. In un’atmosfera molto alla Orwell. Voto 6 e mezzo
Beh, è stato concesso a noi italiani di vederlo, questo terzo HG – o meglio, la prima parte del capitolo #3 – un giorno prima della sua uscita negli Stati Uniti, e chissà se lo dobbiamo considerare un privilegio. In ogni caso per favore non spariamo sulla saga più amata dagli young-adults, non facciamo le signorine e i signorini snob, che questo nuovo episodio non è mica da buttare, e comunque siamo a livelli stratosferici rispetto a prodottame di clonatura tipo The Giver. Se il secondo capitolo era mediocre tendente al pessimo, questo Hunger Games: il canto della rivolta risolleva la media della saga, anche se – e chissà come reagiranno i devoti duri e puri – qui di Games ormai si parla pochissimo e soprattutto nessuno li pratica più. Niente di niente di quelle partite feroci tra cacciatori e prede umane laggiù nelle foreste e nelle plaghe più selvatiche di Panem, con la combattenete Katniss e il suo infallibile, micidiale arco. Qui la ragazza ha smesso gli abiti, prima fiammeggianti nelle rutilanti passerelle di Capitol City e poi sbrindellati negli agguati sul campo agli altri tributi, della guerriera per indossare quelli dell’icona. Del simbolo. Addio giochi gladiatori, addio allo spettacolo del sangue e della morte mediatizzata su videowall sparsi nell’infelice contrada. La saga HG si evolve e cambia radicalmente, si allontana sempre più dal format iniziale per diventare un qualcos’altro che si comincia a intravedere, ma che capiremo meglio nei prossimi episodi. Meno romanzo di formazione di adolescenti, e nel quale gli adolescenti di tutto il mondo si sono rispecchiati, e più affresco di popolo, di un popolo oppresso, e della sua ribellione-emancipazione. Lo si era intuito già la volta scorsa dalle parole e dalle mosse del personaggio di Plutarch (lo interpreta Philip Seymour Hoffman, cui il film è dedicato) che si sarebbe andati verso la rivolta nei confronti dei poteri costituiti di capitol City e del suo mostro dai modi soavi e melliflui, il presidente Snow interpretato da Donald Sutherland. Come se in questo nuovo capitolo della saga distopica avesse fatto irruzione la lunga catena di movimenti e sollevazioni di piazza degli ultimi anni, dagli Occupy-qualcosa alle varie Tahrir e Maidan. Anche se l’immaginario di riferimento – ed è di gran lunga la parte più interessante di un film che tenta, ma non ce la fa, a riscattarsi dai suoi bamboccionismi per young-adults – resta per il regista e gli sceneggiatori quello delle guerre e dei vari orrori del Novecento. Del secolo breve. Il secolo dei totalitarismi e dei conflitti che ne sono derivati, e della riduzioni in servitù di interi popoli.
Dal distretto 13 di Panem, schiacciato dal tallone di ferro di Capitol City e quasi raso al suolo da feroci bombardamenti aerei (allusione a Dresda? a Guernica?), parte la resistenza di coloro che sono riusciti a sopravvivere e ora, rifugiati nel sottosuolo, non pensano che alla riscossa. Li comanda la presidentessa Coin, un’austera Julianne Moore tesa non solo a muovere l’attacco al cuore dei fetenti del regime, ma a instaurare all’interno della sua gente una disciplina monacale, uno stile di vita, anzi di sopravvivenza, di austera sobrietà, di poverismo no frills. In un egualitarismo radicale per cui tutti han la la stessa cameretta essenzial-trappista, tutti la stessa divisa grigioverde e vagamente militaresca che richiama molto, molto, molto da vicino quella delle Guardie Rosse di maoista memoria. Nonché la Lara/Julie Christie del Dottor Zivago quando, nella Russia ormai sovietizzata e totalitaria, ci ricompare davanti con i capelli nascosti sotto un fazzoletto annodato e in tuta da operaia massificata. Assiste l’algida presidentessa il consigliere Plutarch, che cerca di mitigarne i rigorismi e frenarne le derive fanatiche (che già lasciano intravedere, nel caso che la rivolta abbia successo, l’instaurarsi a Panem di un sistema sociale da brividi). Ogni frivolezza è bandita dal distretto 13, tutti a lavorare, resistere, combattere. Perfino il possesso di gatti è proibito come un lusso e una depravazione borghese. L’obiettivo è di instaurare attraverso la lotta di base e di popolo la democrazia laddove adesso dominano il perfido Snow e la sua cricca di lacché. Ma c’è bisogno, per gasare tutti i distretti a unirsi ai rivoltosi del 13, di un simbolo, di una faccia. Di qualcuno che scuota, entusiasmi, trascini, conquisti alla causa, compatti il popolo tutto di Panem sotto la stessa bandiera. Chi meglio di Katniss, la ragazza che ha vinto gli Hunger Games ma ha anche distrutto (alla fine del secondo episodio) l’arena della morte-spettacolo? E Katniss, dopo un bel po’ di esitazioni, e dopo aver verificato i risultati della repressione ordinata da Snow, accetta il ruolo di Ghiandaia Imitatrice, il Mockingjay del titolo originale (scusate, non ho capito bene perché abbian preso a simbolo ‘sto strano uccello, mi dev’essere sfuggito un passaggio). Quel che segue è l’attacco ai poteri centrali, con tanto di atti di guerriglia strategicamente mirati, e il micidiale contrattacco del regime. Ma se questo è l’asse narrativo portante, la sottotrama è quella che vede Katniss e l’amato Peeta (anche se non s’è ancora capito che tipo di amore sia, visto che lei palpita anche per il fusto Gale) collocati su fronti opposti del conflitto in atto. Prigioniero di Snow, Peeta viene usato dalla propaganda di stato (officiata in tv dal solito Stanley Tucci) per sedare la rivolta. Naturalmente Katniss è convinta che l’abbiano manipolato e condizionato con un lavaggio del cervello di staliniana memoria (e qui, altri fantasmi del secolo breve si insinuano nel film). Ci si aspetta che da un momento all’altro gli sceneggiatori inventino una nuova edizione degli Hunger Games, ma non succederà. Solo attacchi e contrattacchi. Non succede molto altro. Con il rischio che gli young-adults escano delusi e annoiati da tanta politica, mentre il film potrebbe proprio per queste sue trame complesse – un po’ gioco dei potenti shakespeariano e molto Il trono di spade – interessare anche il pubblico più adulto che finora non ha amato la saga. Di Hunger Games, il canto della rivolta restano impresse le scene di rovine, di distruzione su larga scala, di massacri, di attentati che certo molto si ispirano all’attualità nostra (non solo le tante sollevazioni di piazza, ma anche le esecuzioni dell’Isis, qui iconograficamente citate e riprodotte nella sequenza iniziale dei prigionieri messi in ginocchio e giustiziati davanti alla folla). Ma che rimandano soprattutto alla storia più disgraziata del Novecento, con quelle città distrutte e desertificate, gli scheletri carbonizzati disseminati dappertutto, gli edifici in rovina dalle finestre spalancate sul niente. Guernica e Dresda, certo. Aggiungiamoci Grozny, Berlino vinta e invasa dagli alleati, e la Sarajevo del lungo assedio, e la Beirut della lunga guerra civile. Aggiungiamoci fanatismi da guardie rosse e khmer rossi. Domina, a Capitol City ma anche nella severa colonia dei ribelli retti dall’austera presidentessa Coin, un’atmosfera orwelliana. Grandi schermi che trasmettono le facce e le immagini del potere. Simboli che rievocavo sinistramente quelli degli opposti totalitarismi del secolo scorso. Masse asservite e private della loro umanità. Una martellante. Un universo concentrazionario già ben visibile nel primo e fondativo Hunger Games, che qui però risulta intensificato, fino a divorare tutto il film. Uno spostamento di focus narrativo che finisce col penalizzare personaggi centrali nei primi due episodi come l’Haymitch di Woody Harrelson. Cinna addirittura scompare, Stanley Tucci è ridotto a un ectoplasma video, e la flamboyant Effie Trinket è quella che soffre di più come prigioniera in divisa tra i ribelli. Che quando rimpiange i bei tempi a Capitol City con tutti quei vestiti mirabolanti sembra un granduchessa russa finita a fare la contadina in qualche kolkhoz dopo la rivoluzione russa, sempre lì a ricordare i sontuosi balli a Pietroburgo con la famiglia imperiale. Eppure Elizabeth Banks è così brava da riuscire a ritagliarsi con la sua Effie almeno una scena memorabile, quella della vestizione di Katniss. Jennifer Lawrence privata della possibilità di combattere non sa bene come maneggiare questa nuova Katniss un po’ troppo piangente che le han cucito addosso, e fatica a trovare il passo giusto.


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