Recensione "Il guardiano dei morti" di Giuseppe Merico

Creato il 07 febbraio 2013 da Alessandraz @RedazioneDiario
Pubblicato da Gabriella Parisi Cari lettori, oggi vi parlo di un romanzo ambientato nel Salento, in un periodo storico non ben definito e in un paese sospeso fra Brindisi e Lecce, mai nominato, ma che si capisce bene quale sia. Il guardiano dei morti di Giuseppe Merico è una storia dalle tinte cupe e dal linguaggio crudo, che arriva a segno come un pugno nello stomaco, coinvolgendo e sconvolgendo. "Con il freddo bisturi della sua penna, Giuseppe Merico aggredisce la materia incandescente dei legami di sangue e dell'abiezione sociale, restituendoci un Sud che è al tempo stesso Archetipo e Rivoluzione. I suoi personaggi sono anime dolenti votate all'autodistruzione, cattivi non per imprinting genetico quanto piuttosto per una indomita vocazione alla sconfitta. Attraverso una lingua asciutta, Merico ci racconta degli angoli neri nascosti sotto le cose, per mostrarcene l'indecifrabile malia." ― Omar Di Monopoli Autore: Giuseppe Merico Titolo: Il guardiano dei morti Casa Editrice: Perdisa Pop Prezzo: € 18,00 Pagine: 384 Data pubblicazione: 18 ottobre 2012 Trama: Mimino lavora nel cimitero di un piccolo paese della Puglia. Ha appena perso il padre e vive con la madre, un’anziana che soffre di elefantiasi e per questo ha bisogno di cure continue. Un giorno, il custode del cimitero muore in circostanze misteriose, lasciando da solo Mirko, un bambino affetto da un grave disagio psichico. Non essendoci più nessuno a occuparsi del piccolo, Mimino decide di prenderlo con sé. Assistiamo così al comporsi di una famiglia insolita, alla quale si aggiunge Carmela, la prostituta del paese che l’uomo vorrebbe come sua compagna. In questo contesto, Mimino sembra incapace di elaborare il lutto per suo padre. E, costretto al contatto quotidiano con i cadaveri, sviluppa una forma di attenzione morbosa nei confronti di tutti i defunti, che lo porta a profanare i loro corpi. Intanto, fuori dal cimitero, in un Salento gretto e provinciale, il paese è vittima di un antico conflitto tra due uomini di mafia, due fratelli che si rivaleggiano a colpi di auto bruciate, santini e omicidi. A indagare sulla faida ci sono due poliziotti mandati dalla capitale e destinati ad avere un ruolo nelle vite degli altri personaggi. Pagina dopo pagina, si compone così un romanzo nerissimo, gotico e terribile, ma anche capace di mostrare al lettore speranza e bellezza: una luce sempre presente, anche quando tutto sembra volgere al peggio.

RECENSIONE Siamo in un paese in bilico fra la provincia di Lecce e quella di Brindisi. Si capisce chiaramente di quale paese si tratti, ma non essendo stato mai nominato da Merico, non lo farò neanche io: uno di quei paesi del sud in cui tre vecchie vestite di nero che si incontrano per la strada, davanti alle loro case di 'cummari' a parlare dei morti, sembrano essere Cloto, Lachesi e Atropo, pronte a tagliare il filo della prossima vita.
Siamo in un periodo storico non ben definito ― ci sono ancora le lire, la tecnologia è arretrata ― forse gli anni '80. L'Italia sembra divisa nettamente fra Nord, Centro e Sud, e al Sud ogni paesino è un piccolo mondo a parte, con i suoi capimafia, i suoi personaggi peculiari e una sua vita quasi autonoma. Ancora non sono arrivati la globalizzazione e internet, con la loro capacità di unire e accomunare i poli opposti del mondo. Per i personaggi di questo romanzo, andare a Brindisi o a Lecce, in via Trinchese a fare acquisti, costituisce un evento.

Mimino è abituato a vedere la morte attorno a sé: di lavoro fa il "guardiano dei morti", è lui che sigilla le bare prima della tumulazione. Ma cosa accade quando a morire è proprio suo padre? Mimino comincia a non vedere più la morte come una cosa che riguarda gli altri, come un lavoro. Comincia invece a porsi delle domande, vuole capire, scoprire. Così cerca di trattenere i cadaveri spogliandoli, baciandoli, toccandoli, assaggiandoli, trasportandoli in un casolare dove li lascia seduti a un tavolo come se stessero ancora giocando a carte.

Il punto è che non so dove vanno, non so dov'è andato papà e guardarlo in quella foto in bianco e nero mi fa salire un grumo nero, lo fa salire attraverso lo stomaco e invece di uscire dalla bocca, il grumo prende la strada dei polmoni e mi toglie il respiro e allora penso che i morti son capaci di farti sentire questo, o i morti o le persone vive per le quali daresti la vita, ché questo è un loro modo di comunicare.
Mimino è ossessionato dal corpo umano: si mette sempre nudo davanti allo specchio per studiarsi e confrontarsi con i cadaveri. La sua è una curiosità che ha avuto origine fin dall'infanzia, quando cercava di ‘pesare’ il corpo ingombrante e maleodorante della nonna mettendole una mano sotto alla coscia. Eppure adesso il corpo, quell’involucro mortale, diventa un assillo, forse perché spera di trovare in esso la spiegazione, il passaggio fra la vita e la morte. Non riesce a elaborare il lutto Mimino, almeno fino a quando il piccolo Mirko, il figlio del guardiano del cimitero, con seri problemi psichici, non si ritrova solo. Per Mimino è quasi naturale formare una piccola famiglia con Mirko, Carmela ― la sua donna ma anche la puttana del paese ― e sua madre, che diventa 'la nonna'. 


Ma per Merico quel piccolo paese non vuole saperne di riscattarsi, i suoi abitanti sono 'vinti' di professione, anche i mafiosi, che si fanno guerra fra loro, in una faida infinita che porta solo morte. Così come il paese, molti personaggi non hanno un nome proprio e vengono designati attraverso dei nomi comuni: Il poliziotto, il malato, l'animale, il fratello. Essi rappresentano degli stereotipi che sembrano rifiutare un'identità precisa, pur avendo ruoli di rilievo nel romanzo. Al racconto in prima persona di Mimino, il protagonista, si alternano brani raccontati da un narratore esterno, incentrati su don Salvatore, uno dei capimafia del paese, e su un poliziotto, che viene da Roma e osserva con gli occhi dello straniero che non comprende i meccanismi arretrati, quasi primordiali, su cui si muove ― molto lentamente ― il paese.
Sono solo due mesi che ha lasciato Roma e già pensa che l'evoluzione umana si sia fatta strada sul territorio a macchia di leopardo e il sud rappresenta uno di quegli spazi vuoti tra le macchie. [...] Il poliziotto, prima di avvicinarsi alla donna, ha cercato di leggere una scritta straniera messa lì, brutta e poco invitante, su un capannone di metallo. La scritta gli ha ricordato che questi posti sono lontani dall'Italia che conosce lui, un'Italia centrale fatta di italiani, qui i popoli si mescolano e quello che ne viene fuori è un meticciato che sa di datteri, olive e incarnati d'Africa e Mediterraneo.
Un romanzo nero, spietato, in cui ogni speranza di riscatto sembra impossibile. Uno stile netto, brutale e realistico, che spinge il lettore nell'incubo di disperazione dei personaggi di un Salento sospeso nel tempo. C'è da chiedersi se oggi qualcosa sia cambiato o se ancora le vecchie comari vestite di nero si incontrino per strada come le Parche a filare, svolgere e tagliare il filo delle vite umane. L'AUTORE
Giuseppe Merico è nato nel 1974 a San Pietro Vernotico, tra Brindisi e Lecce, ma vive a Bologna. Scrive per la rivista letteraria Argo, ha pubblicato la raccolta di racconti Dita amputate con fedi nuziali (Giraldi, 2007) e il romanzo Io non sono esterno (Castelvecchi, 2011).  Siti Autore:  http://www.scrivoeleggo.com/  http://www.giuseppemerico.it/

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