Pubblicato da Francesca Pegoraro
Cari lettori,
oggi vogliamo parlarvi di Il peso della grazia, primo romanzo di Christian Raimo edito da Einaudi nella collana SupercoralliNon è solo una storia d’amore, come è stato definito dai più, ma in realtà i temi in esso presenti sono dei più diversi: dal disagio esistenziale al disgregamento della famiglia, dal disadattamento sociale alla ricerca interiore, per noi parlare della volontà di denuncia di molti aspetti negativi della nostra Italia quali il precariato e lo sfruttamento dei lavoratori stranieri.
Titolooriginale: Il peso della grazia Autore: Christian Raimo Casa Editrice: Einaudi Pagine: 464 Prezzo: 21,00 € Data di uscita: ottobre 2012 Trama: Giuseppe è un giovane ricercatore di fisica, lavora da anni a uno studio sulle fiamme che minaccia di rivelarsi un fallimento. Nel frattempo ha perso il contatto con la realtà. Ha diradato i rapporti con gli amici e con la famiglia, ormai dispersa in quattro città diverse. L'unica compagnia che frequenta è un barbone polacco che lo chiama per qualunque emergenza, vera o presunta. E anche la recente conversione al cattolicesimo somiglia sempre più pericolosamente a una bizzarra ossessione. Sarà per questo che quando una sera d'estate incontra Fiora, Giuseppe si accorge di aver trovato «una kryptonite che riesce a disinnescare la sua capacità di distrazione». Eppure niente sembra più difficile che decidere di affidarsi a un'altra persona. Smettere di difendersi è un gesto estremo, una pratica desueta e misteriosa. «Ma come si fa a sapere che non si va da nessuna parte se non si percorre una via fino in fondo?» RECENSIONE Che il primo romanzo di Christian Raimo, Il peso della grazia, affronti molti argomenti e non solo l’amore è cosa universalmente verificabile. Il libro, decisamente corposo, passa da un’argomento all’altro con la leggerezza e la casualità di un’ape prigioniera in una serra e in cerca di polline. La storia d’amore è, infatti, più un pretesto per dischiudere i cassetti dell’anima e della mente del protagonista, che un vero asse portante della narrazione. Giuseppe è affetto da una strana malattia che potremmo definire sindrome da disconnessione cronica, tanta è la facilità con cui la sua attenzione si distacca dalla realtà circostante e si tuffa di pensiero in pensiero in una continua libera associazione di idee, che ovviamente trova il suo mentore nella tecnica dello stream of consciousness. Come in una contemporanea versione maschile di Mrs Dalloway, il lettore è portato a spasso nei meandri della coscienza del protagonista, da un pensiero all’altro, assistendo al flusso ininterrotto delle sue riflessioni. L’azione narrativa è, conseguentemente, dilatata fino all’inverosimile, tanto che spesso nell’animo del lettore nasce spontanea una certa insofferenza. La sola cosa che riesce, per lo meno fino a un certo punto, a mitigare tale sentimento, è l’indubbio fascino che tali pensieri suscitano. Giuseppe è un eroe tutto contemporaneo, figlio del disincantamento post romantico che ha sicuramente nei suoi antenati tutti i vari Zeno possibili e immaginabili. La serietà e la sensibilità con cui riflette sulla vita, sui suoi aspetti piccoli e insignificanti, ma anche su interrogativi più profondi e importanti quali la famiglia o la religione, ne fanno a modo suo un vero eroe. Certo, per simpatizzare veramente con lui il lettore deve essergli affine; per poterlo comprendere veramente deve aver anche solo parzialmente condiviso alcune delle sue sensazioni: il disagio familiare, la disillusione sociale, il dubbio religioso e il fallimento lavorativo ed esistenziale. Tuttavia nonostante tutta la buona volontà o il rispondere in toto ai suddetti requisiti, anche il lettore più fedele, superata la prima delle sei parti di cui il romanzo si compone, è fortemente desideroso di gettare la spugna. Ciò accade soprattutto perché a un tratto la trama si fa veramente troppo inverosimile e inconsistente per reggere una simile tecnica narrativa: anche Virginia Woolf non riusciva a utilizzarla per più di trecento pagine di seguito e, a meno che uno non si chiami James Joyce e stia scrivendo l’Ulysses, è difficile che chiunque altro riesca a fare di meglio. Lo stile di Raimo è decisamente piacevole manifestando un gusto per la descrizione preciso e minuzioso. Ogni aggettivo è scelto con cura e con il preciso intento di creare immagini particolari, inconsuete e altamente suggestive. Anche nei momenti di rappresentazione del flusso di coscienza, il discorso narrativo scorre leggero e i pensieri del protagonista non si susseguono mai a caso, ma seguono sempre una sua logica, certo molto particolare, ma comunque lineare. Oltre alla padronanza della lingua, è indubbio anche l’enorme bagaglio di letture che l’autore si porta dietro e certa è anche la cura con cui il testo è stato “programmato”. Quello che veramente non regge alla prova lettura è l’eccesso. Raimo, infatti, trasforma tutte queste sue belle qualità in un difetto semplicemente per volerle riprodurle all’estremo e indefinitamente come un grande chef che invece di limitare il suo menù a poche portate alla volta, per dar modo agli invitati di assaporale, decide di produrre in una sola volta tutte le sue pietanze/creazioni: dopo due portate l’indigestione è assicurata!