Recensione Il ponte del dragone

Creato il 15 gennaio 2016 da Lightman

Dolph Lundgren è un temerario e invincibile mercenario che si innamora di una bella principessa orientale ne Il ponte del dragone, scult bellico / fantasy diretto nel 1999 da Isaac Florentine.

" Da qualche parte, dove il futuro incontra il passato, la prematura morte del Re ha lasciato il Regno con una principessa troppo giovane per governare. L'ambizioso generale Ruechang ha assunto il potere e le terre sono cadute nell'oscurità."
Warchild è un abile e coraggioso mercenario che lavora per il crudele Generale Ruechang, suo maestro nell'arte della guerra. Ruechang sta pensando di ottenere definitivamente il controllo del Paese prendendo in sposa la bella principessa Halo. Ma la ragazza, dopo aver scoperto che il futuro sposo è l'assassino di suo padre, decide di fuggire, cadendo nelle mani di un gruppo di briganti. Warchild viene incaricato dal suo mentore di salvarla e ricondurla a palazzo, ma durante la missione si innamora, ricambiato, di Halo, scegliendo di ribellarsi e collaborando con un gruppo di rivoluzionari.

Un ponte traballante

Non è un caso che su IMDB tra i generi di appartenenza risulti anche lo sci-fi: non si può definire infatti altro che fantascientifica la paradossale trama de Il ponte del dragone, straight-to-video del 1999 con protagonista un allora quarantaduenne Dolph Lundgren. A dire il vero la narrazione flirta più col fantasy, ma è un dettaglio di poco conto in una sceneggiatura derivativa e pasticciata che scade a più riprese nel ridicolo involontario, con un background pressoché nulla concernente il "fantastico" mondo in cui è ambientata la vicenda. Isaac Florentine, regista di scult abominevoli ma anche di discreti titoli di genere come Undisputed III: Redemption (2012) e il dittico di Ninja con Scott Adkins, dirige nel 1999 un improbabile accozzaglia action-oriented priva di alcun senso logico e/o guizzi di originalità, lanciando l'invincibile gigante svedese anche in una forzata liason romantica. War-movie inutilmente folkloristico di una realtà immaginaria popolata da orientali e occidentali (un possibile rimando a Hong Kong?), il film si guarda bene dall'osare più del dovuto nelle sequenze più concitate, strizzando grottescamente l'occhio al cinema di John Woo (salti con fucile in mano e pseudo-rallenty a profusione) e impegnando il Nostro in pose plastiche di raro imbarazzo, trovando perlopiù un nugolo di cascatori improvvisati: la gente che muore qui cade a terra tra versi e gesti plateali che provocano più di una risata. Qualcosa di positivo, sforzandosi di trovarlo, lo si trova: la Halo di Valerie Chow è bella quanto basta e il villain del grande (e sprecatissimo) Cary-Hiroyuki Tagawa ha un certo insano fascino. Per la cronaca, il ponte del titolo è solo metaforico.

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