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Recensione: IL PONTE DELLE SPIE di Spielberg. Perché (secondo me) non è quel capolavoro

Creato il 22 dicembre 2015 da Luigilocatelli

12357094_490163934505171_5567706646467835522_o12339386_487834878071410_4337414224825438624_oIl ponte delle spie, un film di Steven Spielberg. Sceneggiatura di Matt Charman, Joel e Ethan Coen. Con Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Alan Alda, Austin Stowell, Sebastian Koch.
11411962_413606162160949_5194186716088974242_oStoria dell’avvocato di nome Donovan che nell’America della caccia alle streghe osò difendere in tribunale la spia sovietica Abel. E che poi ebbe l’incarico di condurre le trattative segrete con l’Urss per lo scambio di Abel con il pilota Powers prigioniero dei sovietici. Ma il clima torbido e ambiguo della guerra fredda come l’abbiamo conosciuto nei romanzi di Le Carré non viene replicato in questo film così netto, chiaro, privo di ombre e sicuro di sé. Dove a far la figura migliore è l’irresistibile Abel e la peggiore gli americani intossicati di propaganda maccartista. Si parla di allora, ma si allude all’oggi, alla paura del terrorismo. Voto 5 e mezzo
11050240_475509302637301_4065214305654996634_oChe magnifica storia quella raccontata da Il ponte delle spie, gran romanzo della realtà che recupera due episodi prima distinti e poi connessi della guerra fredda (il processo negli Usa alla spia sovietica Rudolf Abel e il suo successivo scambio sul ponte tra le due Germanie con il pilota dell’aereo spia Francis Gary Powers), guerra che qualche storico avrebbe definito la terza mondiale, benché mai ufficialmente dichiarata. E però, anche, che delusione. Dopo il formidabile Lincoln, uno dei film più belli e sorprendenti (diciamolo, chi mai se lo immaginava?) di questa decade, ci si aspettava da Steven Spielberg un qualcosa dalle parti del capolavoro in grado di restituire tutte le ombre e le penombre e le ambiguità del conflitto strisciante che oppose le due superpotenze. Tutti quei chiariscuri, quella terra di nessuno tra opposti valori e visioni del mondo che invece fu mirabilmente indagata a suo tempo da John Le Carré in La spia che venne dal freddo (da cui Martin Ritt trasse un film in un livido bianco e nero cui Il ponte delle spie purtroppo non somiglia) e in La talpa. Doppi e tripli giochi, passaggi da un campo all’altro rimescolando appartenenze e identità, azzerando ogni nostra chance di distinguere il bene dal male. Invece, nel film di Spielberg niente di tutto questo. Forse (soprattutto?) per via di una sceneggiatura monolitica che ci mostra in piena luce episodi complessi e oscuri, e che lo fa con troppe sicurezze ideologiche ed etiche, pochi dubbi, poche o zero sottigliezze capaci di rendere la lunga zona grigia tra il bianco e il nero. Se son stati poi chiamati, com’è successo, i fratelli Coen a trattare e riscrivere almeno in parte la sceneggiatura originaria ci sarà stato un motivo, probabile che lo stesso Spielberg abbia avvertito la necessità di complessificare e stratificare. Ma l’intervento dei Coen Bros. sembra limitato all’aggiunta di una qualche smagliante battuta qua e là, di una qualche invenzione stravagante e di loro tipico lunare surrealismo e però alla fin fine marginale (un critico anglofono, ahimè non ricordo quale, individua come di sicuro segno coeniano la falsa famiglia sovietica di Rudolf Abel, io azzarderei anche la sala cinematografica berlinese con in cartellone Spartacus di Stanley Kubrick e Un, due, tre di Billy Wilder, commedia di spietato cinismo sulla guerra fredda di cui i due fratelli potrebbero benissimo firmare un remake, ma che con lo spirito spielberghiano c’entra poco, anzi niente). L’impalcatura è rimasta quella dello screenplay di Matt Charman, e così un signore del cinema come Spielberg non ce la fa a replicare l’esito dei suoi film più riusciti sulla Storia recente o meno recente, Lincoln e Munich, mica per niente tutti e due scritti dal Tony Kushner di Angels in America. Che se fosse stato imbarcato in questa impresa chissà cosa di bello e bellissimo avrebbe tirato fuori. Senza un scrittura adeguatamente intossicata, densa più di interrogativi che di risposte, il regista di Lincoln ma anche di Et che già di suo tende all’edificazione e all’epica dei piccoli eroismi ci consegna un film onesto, di ottime intenzioni, ma inesorabilmente a una sola dimensione. Aggiungeteci la presenza di Tom Hanks (bravissimo, intendiamoci), pure lui geneticamente portato a personaggi che si fanno bandiera e incarnazione del buono e del meglio che ce c’è nell’uomo, e in particolare nell’homo americanus, e si capirà come Il ponte delle spie non ricordi neanche lontanamente la lunga striscia di film sulla guerra fredda così intrisi di incombente e pervasiva minaccia, non solo quelli da Le Carré ma anche altri classici come il meraviglioso Ipcress che lanciò Michael Caine. Certo, in quei casi si trattava di pura finzione, qui invece di ricostruzione della realtà, con la necessità di rispettare i fatti accaduti, ma la differenza non basta a spiegare l’esito così diverso che va se mai cercato nella scrittura, e nella regia. Al centro della scena è l’avvocato James Donovan, buon americano che crede nell’America migliore, quella del primato dell’individuo e dei suoi diritti, della fede nella libertà e nella democrazia. Un character s’è detto alla Frank Capra, e però affondato nel crogiolo della Storia tra anni Cinquanta e primissimi Sessanta, nella pesantezza d’acciaio dello scontro Usa-Urss per l’egemonia ideologica mondiale. Quando a Brooklyn arrestano la spia sovietica Rudolf Abel, un omino assai qualunque che si rivelerà invece di una tempra d’acciaio del genere mi-sun-de-quei-che-parlen-no (cit. Ma mi), siamo solo all’inizio di una vicenda che si rivelerà intricatissima e generatrice di molti e inaspettati tornanti e colpi di scena. Il clima negli Usa è ancora quello del maccartismo e della caccia alle streghe rosse, solo pochi anni sono passati dal caso dei coniugi Rosenberg finiti sulla sedia elettrica con l’accusa di aver trasmesso all’Unione Sovietica informazioni sensibili sulle armi atomiche, sicché l’apparentemente mite e innocuo Abel vien subito imprigionato e processato con tanto di minaccia di pena capitale. Ma (grazie a Dio) siamo in America e all’imputato Abel vengono garantiti i diritti alla difesa. Faccenda spinosa, gli studi legali tendono a scansare l’incarico per non compromettersi l’immagine e passare agli occhi dell’opinione pubblica da fiancheggiatori di una spia, finché la cosa casca, letteralmente, addosso all’integerrimo avvocato Donovan. Il quale accetta, pur consapevole di quel che lo aspetta. Verrà minacciato, minacceranno la sua famiglia, ma lui, everyman tramutatosi senza volerlo, e come nelle meglio storie americane, in eroe, non defletterà. Riuscendo pure a stabilire con Abel una relazione di reciproco rispetto che va oltre il dovere professionale. Non ce la farà a evitargli la condanna, ma la sedia elettrica sì (ma davvero, come vediamo, poteva succedere che un avvocato andasse in privato dal giudice implorandolo di non infliggere la pena capitale in quanto mossa politicamente controproducente? mah). Sarà per il credito accumulato con la difesa di Abel che Donovan verrà scelto dalle istituzioni americane per una missione impossibile, trattare informalmente e senza alcuna investitura ufficiale con l’Urss lo scambio tra Abel e Powers. Ovverossia il giovane pilota mandato in missione spionistica con il suo U2 a scattare foto del territorio sovietico e poi abbattuto e fatto prigioniero. Tutto, come esige la narrazione della guerra fredda, si svolgerà a Berlino, prima senza muro e poi con muro (ne vediamo l’edificazione) tra Est e Ovest. Berlino, città simbolo e perfino martire, scenario perfetto di ogni intrigo e sotterranea trattativa e gioco tra le parti. Se nella sua prima metà Il ponte delle spie ce la fa a convincere, soprattutto nella messa a punto delle figura di Abel e Donovan, nella seconda metà, quella tedesca, la delusione è grande. Spielberg non riesce a a restituirci quel clima plumbeo, lugubre e caliginoso, quella danza di ombre e di spettri che fu l’epopea drammatica e insieme grandiosa della città scissa e ferita dentro. Gli inserti comedy, probabilmente firmati Coen – dalla finta famiglia Abel al cappotto rubato al raffreddore di Donovan e al suo voglio-tornare-a-casa che suona quasi come una citazione-parodia di Et – non si saldano mai con la cupezza e la durezza del resto, imprimendo a Il ponte delle spie un andamento ondivago. Finirà come deve finire, del resto è storia, mica fiction, senza che il racconto strada facendo riesca ad appassionarci granché. La ricostruzione di Berlino Est, anche se di sicuro mestiere, è visibilmente falsa e priva di adeguate atmosfere (si è girato nella polacca Wrocław, la ex Breslau, e quella Friedrichstrasse è davvero troppo lontana dall’originale; capisco come non si potesse allestire il set nella Berlino di oggi, dove degli anni Ddr è rimasto quasi niente, però qualcosa di più si poteva fare). Alla fine il bilancio è abbastanza curioso e spiazzante. A fare la migliore figura, oltre all’avvocato Donovan, è paradossalmente Rudolf Abel, spia tutta d’un pezzo che non tradisce mai e dotata di tagliente senso dell’umorismo (“servirebbe?” la sua battuta tormentone), disincantato su uomini e cose, compresa la stessa Unione Sovietica per cui ha segretamente lavorato e rischiato la pelle. Risultato raggiunto grazie anche al formidabile Mark Rylance che lo interpreta e si candida seriamente all’Oscar come best supporting actor, e che al suo Abel conferisce la maschera impenetrabile del giocatore di poker (ed è incredibile la somiglianza fisica con l’Adolf Eichmann sotto processo a Gerusalemme). Sì, benissimo, ma scusate la domanda sconveniente: era proprio il caso di beatificare Abel, che esercitava pur sempre il poco commendevole lavoro di spia? E dipingere l’America di allora come una terra di invasati paranoici con l’ossessione del pericolo rosso? Giusto stigmatizzare quella psicosi collettiva, e però non è che l’Unione Sovietica fosse un’associazione benefica, e che passare informazioni segrete a Mosca fosse un’attività umanitaria, o no? In questo strano film che ricostruisce e riscrive buonisticamente e con correttezza politica e senno di poi quella stagione difficile, quelle tempeste d’acciaio, nemmeno i sovietici fanno una brutta figura. D’accordo, sottopongono il soldatino Powers alla tortura del sonno, ma nelle trattative con gli americani sullo scambio con Abel si comportano con encomiabile correttezza rispettando patti e promesse. E invece alla fine i veri cattivi risultano essere quei tedescacci della Ddr (ah signora mia, possono anche cambiare bandiera e casacca ma sotto sotto restan sempre delle carogne nazi!), che si infilano tra Usa e Urss cercando di complicare le cose e rovinare gli accordi al solo scopo di affermare il proprio ruolo strategico nella partita tra le due superpotenze. Sì, strana redistribuzione ex post di colpe, responsabilità e meriti, tracciando questo film una mappa della vicenda e dei fatti, e demarcazioni tra buoni e cattivi, non sempre così condivisibili. Trasparenti i riferimenti all’oggi. Si parla di caccia alle streghe comuniste anni Cinquanta alludendo in tutta evidenza all’attuale paura del terrorismo islamico. E se Il ponte delle spie vuol dirci che non bisogna perdere la testa e deflettere dalla retta via dei diritti umani e delle garanzie degli indagati, va benissimo. Se invece vuol suggerirci che la paura del terrorismo è solo un’ossessione paranoica e una psicosi collettiva non ci siamo proprio.


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