[Recensione] Il segno dell’untore di Franco Forte

Creato il 06 febbraio 2012 da Queenseptienna @queenseptienna

Titolo: Il segno dell’untore
Autore: Franco Forte
Editore: Mondadori
ISBN: 978-8804620150
Anno: 2012
Numero pagine: 342
Prezzo: € 12,75
Voto:
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Trama: Milano, 1576. Nel drammatico giorno della morte della moglie, consumata atrocemente dalla peste, il notaio criminale Niccolò Taverna viene convocato dal Capitano di Giustizia per risolvere un difficile caso di omicidio. La vittima è Bernardino da Savona, commissario della Santa Inquisizione che aveva il compito di far valere le decisioni della Corona di Spagna sul suolo del Ducato di Milano. Ma non solo: Bernardino aveva ricevuto l’incarico di occuparsi degli ordini ecclesiastici “difficili”, come gli Umiliati, messi al bando dall’arcivescovo Carlo Borromeo, mansione che ha reso ancora più difficili le relazioni tra potere secolare (Corona di Spagna) e potere temporale (Chiesa di Milano). Contemporaneamente, Niccolò Taverna deve anche riuscire a individuare il responsabile del furto di un candelabro di Benvenuto Cellini trafugato dal Duomo di Milano. Ma ben presto si accorge che la ricerca del candelabro si rivela una pista sbagliata perché un altro oggetto, ben più prezioso, è stato sottratto: la reliquia del Sacro Chiodo della Croce di Cristo. In una Milano piagata dalla peste e su cui si allunga l’ombra della Santa Inquisizione, il notaio criminale Niccolò Taverna deve sfruttare tutte le sue straordinarie capacità investigative per venire a capo di questi due intricati casi.

Recensione: Alcuni autori cesellano battute fulminanti, paragrafi sorprendenti, talora intere pagine memorabili; e nascondono con cura questi tesori all’interno dei loro romanzi, perché il lettore, incontrandoli, sobbalzi sulla sedia e senta quell’inconfondibile tremito al cuore quando finalmente ne riconosce uno.

Franco Forte non è uno di questi autori.
No, non lo è: e non per via di un suo qualche ipotetico limite, ma per precisa scelta stilistica, come ci spiega tramite il suo alter-ego cinquecentesco, Niccolò Taverna, notaio criminale:
“…non si concentrava mai su un singolo dettaglio, per quanto strano o eclatante. Era l’insieme che dava l’esatta misura di ciò che aveva di fronte, e questo valeva per il corpo di sua moglie come per il luogo dove era stato commesso il delitto.”

Quando si sceglie, all’interno di un testo, un brano significativo da citare, si tende di solito a selezionarne uno valido per la propria eleganza intrinseca, o per l’immanenza del significato. Credo però di rispettare lo spirito del romanzo riportandone al contrario un passaggio (quello precedente appunto) scelto solo in virtù del suo profondo significato metanarrativo: la voce narrante ci parla del protagonista dell’opera; ma al contempo, come un’eco, il romanziere ci parla dell’opera stessa. Può esserci qualcosa di più bello di questo gioco, che tanto caro fu ai Grandi del passato?

La prosa ingannevolmente semplice di Forte non si affida infatti a strategiche frasi a effetto, magari disseminate in un testo altrimenti anonimo; la sua vera forza, invece, sta proprio nell’uniformità di uno stile in cui ogni parola è funzionale a un’altra; in cui ogni paragrafo, come un ingranaggio, si abbina al precedente e al successivo senza soluzione stilistica.
Come la frase citata ci suggerisce, è l’insieme del romanzo ciò che ci da la misura del suo valore; un insieme cui ogni componente partecipa con pari dignità.

E’ proprio di questi giorni una nuova (ma mica tanto) polemica riguardo alla pretesa che la letteratura “di genere” sia, o non sia, tenuta ad affrontare tematiche sociali pregnanti, usando i modi, ma soprattutto il linguaggio, della narrativa mainstream.
La risposta di Franco a questa domanda (che, detto fra noi, riecheggia nei toni i famigerati richiami all’impegno degli anni ’60) è implicita nel suo romanzo: non ci sono, nel libro, pagine di alta letteratura (quasiasi cosa questo significhi); e meno male, aggiungo io, perché in questo contesto striderebbero come una sirena in un’orchestra sinfonica.

Uno dei più noti canoni dell’ingegneria insegna infatti che il meccanismo perfetto non è quello che si può arricchire a piacere di nuove funzioni, ma quello che non si può semplificare ulteriormente senza snaturarlo. Questo romanzo, secondo quel canone, è un meccanismo che rasenta la perfezione: ogni sua parte è concepita in funzione della storia, e non c’è in esso niente di superfluo o di autocelebrativo. Pretendere che in questo meccanismo trovi posto anche una raffazzonata critica sociale, propria del tempo in cui è scritto e non di quello in cui è ambientato, significherebbe violentarne la natura stessa: “Il segno dell’untore” è un giallo storico, e un signor giallo storico, se mi è concesso.
Se volete Alta Letteratura, lo scaffale dei Classici è quello vicino alla porta.

In questo giallo Niccolò Taverna, novello Leopold Bloom, attraversa in un singolo giorno una Milano appestata e inquieta, e le ore che trascorrono scandiscono i ritmi dell’indagine su un omicidio da cui molti destini dipendono, primo fra tutti quello del protagonista, proverbiale vaso di coccio tra tanti vasi di acciaio (acciaio di Toledo, tanto per stare in tema). E, al termine della giornata (e dell’inchiesta), anche lui trova la sua Isabella-Molly Bloom ad attenderlo al varco, sensuale e appassionata… e forse irraggiungibile.

Come nella migliore tradizione giallistica, alla fine ogni filo si riannoda, e tutti i pezzi del puzzle investigativo si ricompongono senza lasciare proprio nulla nella scatola: neppure un singolo chiodino — ma lasciando a noi lettori una galleria di personaggi che aspettano solo una nuova indagine per tornare a stuzzicarci l’ingegno.
E noi aspettiamo con loro, fiduciosi.
Dopotutto, c’è ancora spazio per un sacco di tacche, su quella balestra…


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