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Recensione - Il silenzio di Michelina di Rita Sanna, di Stefania Congia

Creato il 04 ottobre 2013 da Andrea Leonelli @AndreaLeonelli

Recensione - Il silenzio di Michelina di Rita Sanna, di Stefania Congia Raccontare di un incesto e di una violenza all’interno della famiglia con la essenzialità e la durezza di una prosa sarda. Dimostrare come anche un tema insondabile, sin dai classici greci, possa trovare una rappresentazione narrativa intensa, senza che si conceda niente al superfluo. La storia è quella di Michelina, una bambina che viene da una famiglia numerosa molto povera dalla quale si allontana per andare “a servizio” in una famiglia di “signori”. Viene scelta dalla “padrona” perché più intraprendente della sorella maggiore “Doloretta”. Quando parte da casa, nonostante la giovanissima età, non c’è né tristezza né nostalgia, solo un senso di liberazione. Più tardi rivelerà di sentire la mancanza per un piccolo fratello malandato, da lei cresciuto. Fedele alla sua nuova famiglia e instancabile nel lavoro, un giorno partorisce inaspettatamente, suscitando una sgomenta sorpresa nella padrona. Questa si rivolge a Nora, l’anziana levatrice del paese in pensione, che dopo aver assistito materialmente Michelina cerca di capire chi sia il padre. Ma la ragazza si rifiuta di parlare sia con l’ostetrica sia con la madre giunta nel frattempo. Decide di confidare il segreto solo alla sua signora la quale, con l’aiuto di Nora, riesce a trovare un brefotrofio dove Michelina e la sua bimba menomata trovano ospitalità. Il racconto, tragico nel suo svolgersi, si apre nelle ultime pagine ad un’altra possibilità: la vita della ragazzina cambia, conosce l’affetto, le gratificazioni e il valore della complicità. Il racconto parla di una Sardegna che non esiste più. Che la modernità, per dirla con Pasolini, ha corrotto. Un mondo, però, che ogni sardo ricorda, riconosce e si porta dentro, come le radici di una quercia, che affondano senza fronzoli fino alle viscere più profonde. Le 99 pagine del libro si fanno leggere d’un fiato, e la violenza familiare descritta ci rimanda ad una riflessione che non ha perso attualità. L’autenticità dei personaggi è scolpita in modo tranchant. In alcuni passaggi bastano poche parole per descrivere la crudeltà dell’assenza assoluta di affettività, e il non detto nei rapporti familiari insiste come un macigno – l’enorme peso del silenzio che accompagna la nostra isola -, nella caratterizzazione dei protagonisti. I rapporti umani sono tratteggiati con nettezza. Le persone sono buone o cattive: alcune capaci di gesti di altruismo mai ostentato, altre in grado di compiere cattiverie utilizzando l’omertà o la connivenza. Lo stesso senso della giustizia, inteso come ricerca di equità esistenziale, non trova appagamento in un processo e neppure in una condanna la quale, come accade al padre incestuoso, può sempre essere vanificata da un un’amnistia. Solo la morte sembra in grado di rimettere le cose al loro posto: ancora una volta a sottolineare come solo le cose estreme, definitive e senza incertezze – come per l’appunto è la morte -, possano annullare la violenza e la crudeltà. Questo racconto, insomma, vive di visceralità esistenziale. L’amore per la figlia non è proprio dato come possibilità residuale, e la connivenza e complicità della madre con il padre non è debolezza ma attiva negazione di qualsiasi barlume d’umanità all’interno del nucleo familiare. Un ultima notazione deve essere evidenziata. Il racconto è tutto al femminile. Le figure maschili rimangono sullo sfondo, sfumate, senza grande carattere e personalità. A testimoniare che la società tradizionale sarda non ha avuto bisogno di attendere le moderne pari opportunità. Con il matriarcato le aveva, in realtà, già sperimentate.


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