Recensione. IL TOCCO DEL PECCATO: un j’accuse contro la Cina avida di oggi

Creato il 19 novembre 2013 da Luigilocatelli

Il tocco del peccato (Tian Zhu Ding) è nei cinema da giovedì 21 novembre, distribuito da Officine Ubu. Ripubblico la recensione scritta a Cannes dopo la sua presentazione (in concorso) al festival. Il tocco del peccato ha poi ottenuto il premio per la migliore sceneggiatura.Il tocco del peccato (Tian Zhu Ding), un film di Jia Zhang-ke. Con Jiang Wu, Zhao Tao, Wang Baoqiang, Luo Lanshan. Cina. Presentato a Cannes 2013 in Concorso.
Potente, possente, smisurato (quasi due ore e mezzo). Gigantografia in più atti di una Cina travolta socialmente e moralmente dal turbocapitalismo e dallo sviluppo selvaggio. Vincitori e vinti. E i vinti dan fuori di testa, ammazzano, si ammazzano. Blocchi narrativi collegati da fili sottili, e una struttura circolare. Qualcuno (gli americani soprattutto) parla già di Palma d’oro per Un tocco di peccato. Io l’ho trovato troppo concettuale, troppo freddamente costruito, troppo programmatico per convincere davvero. Con pure una certa nostalgia canaglia dei rossi tempi passati. Voto 6 meno
Sì, lo so che questo flm è già in odore di Palma d’oro, insieme al francese Il passato (ma diretto dall’iraniano Asghar Farhadi). Sì, lo so che è un film di quelli che vengono definiti un grandioso affresco, in questo caso affresco raffigurante la nuova Cina del capitalismo & socialismo, ma più il primo che il secondo. Sì, lo so che il regista Jia Zhang-ke è un nome di rispetto, anzi un maestro riconosciuto che a Venezia vinse un Leone oro con Still Life negli anni mülleriani in cui c’era sempre un cinese a portar via qualche premio. Sì, lo so che A Touch of Sin è un film epocale, immenso, fuori misura (dura sulle due ore e 20, e sembrano anche di più), più grande della stessa vita che vuol descrivere, di quelli che fan versare molto inchiostro, sia materico che virtuale. Già se ne parla come del capolavoro di Cannes 66, la stampa americano l’ha issato in cima alla lista dei favoriti, The Daily Beast lo ha già monumentalizzato. Non bastasse, è pure circonfuso dall’aureola dell’opera dissenziente e amtiregime. Mentre si sta in fila, quasi sempre sotto la pioggia, gira la voce tra giornalisti che per la sua spietatezza nel descrivere le pene e le contraddizione e il marciume della Cina di questi tempi, il film sia risultato parecchio inviso alle autorità e rischi di non ottenere l’imprimatur alla circolazione. Ora, di fronte a tutto questo potrò dire che invece a me il film non è poi tanto piaciuto e che anzi qua e là l’ho trovato parecchio fastidioso? Un film multifocale, sulla scia dei vecchi Magnolia, Babel e AmoresPerros. Più personaggi e più storie che però rispetto a quei modelli, non si intrecciano ma si susseguono, creando una narrazione per blocchi, o se volete atti e episodi di una sorta di oratorio laico, con sottili fili che li collegano, e personaggi maggiori o collaterali che congiungono un episodio all’altro, fino a che nell’ultima scena la fine e l’inizio si incontrano, a suggellare la circolarità del racconto e della struttura. Film calcolatissimo, costruito con la precisione e il virtuosismo maniacale di un orologiaio. In comune a ogni frammento c’è l’anomia, per usare un vecchissima categoria sociologica ottocentesca di Durkheim, anomia che si diffonde come un contagio psico-sociale in questo passaggio storico della Cina da paese comunista che era, e tradizionale, rurale, a punta del turbocapitalismo globale. Vite e menti e anime, come diceva Durkheim, che precipitano in varie forme di disadattamento, se non quando di follia. Con molto sangue, molti omicidi, molte efferatezze. Un vecchio compagno (si suppone del partito comunista) si indigna per come i maggiorenti corrotti del villaggio hanno privatizzato una miniera svendendola al solito piccolo oligarca: farà una strage con un fucile da caccia. Un lavoratore che ha lasciato la famiglia per andarsene a Canton fa fuori come in un rovente action americano i tre ragazzi che tentano di rapinarlo. Sarà solo l’inizio di orrori e tragedie seriali. Vediamo una donna che lavora in una sauna-massaggio, infelice innamorata di un uomo sposato che non si decide a lasciare la moglie. Vediamo un ragazzino che lavora in fabbrica e poi finisce a fare da cameriere-uomo security in un bordello per ricchi cinesi e stranieri: taiwanesi, coreani. Tutto sembra corrotto, corroso, marcio dentro, tutto sembra destinato alla dissoluzione, al disastro, alla tragedia. Tutto finisce nel sangue. È questa ineluttabilità, questo ferreo determinismo a non convincere per niente. Il tocco del peccato è, visibilissimamente, un film con tesi incorporata in cui non c’è spazio per deviazioni narrative, contraddizioni, e nemmeno per la leggerezza, qui abita solo il tragico, in una sequenza di atrocità, morti, omicidi, disgrazie, suicidi che alla fine assumono una meccanicità artificiale e, spiace dirlo, perfino ridicola. Se vedete un signore prendere il treno, state certo che quel treno avrà un incidente. E se vedete un anonimo, agghiacciante palazzo in vetrocemento state certi che da lì qualcuno si butterà. Signora mia, è tutta una disgrazia. Jia Zhang-ke condanna, stigmatizza, si indigna, cerca di farci indignare, punta il dito accusatorio sul lercio e la melma che stanno sommergendo il suo paese, su come la modernizzazione stia creando mostri e mostruosità. Non senza una qualche ambigua nostalgia del genere si stava meglio quando si stava peggio (vedi l’episodio primo, quello della miniera). Mi sbaglierò, ma ho sentito circolare in questo film una cert’aria di nostalgia canaglia del comunismo, fenomeno peraltro che si è già verificato nell’ex Unione Sovietica o nell’ex Ddr. Un tocco di peccato sa di troppo di manifesto e di parabola predicatoria perché mi possa piacere, sorry, è un cinema che non è nelle mie corde. Dopodichè non posso non ammirare la gran sapeienza registica di Jia Zhang-ke, il suo condurre il film con piglio robusto cavandone un quadro impressionante e perfino possente di una Cina corrosa dall’industrializzazione, dalla ricchezza (per pochi ancora), dalle disuguaglianze, dal consumismo anche questo diseguale. Certe scene non si dimenticano. Quelle arance rovesciate sull’asfalto che all’inizio metaforizzano già quello che poi vedremo lungo il racconto. Quel bordello per ricchi con le ragazze abbigliate da guardie rosse discinte. Prove che ci troviamo di fronte a un’opera di rispetto, che però ahimè non risce a farsi amare (almeno da me).


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