Aprì l’anta scorrevole. Le mensole erano piene di oggetti.
«Puoi toccarli» aggiunse, come se si trattasse di gioielli.
C’erano un pupazzo a forma di tucano, una visiera trasparente, un fischietto, un pezzo di ferro, un frisbee verde acido, un coltello da caccia, una macchina fotografica di cartone, un compasso, un cubo di Rubik, un dalmata in miniatura, delle forbici di Zwilling, un elastico inclassificabile.
«Sono gli oggetti che dimenticano i turisti. Rimangono per sei mesi nel Lost&Found, poi vengono buttati. Sono riuscita a tenermi questi».
«ui Q Qui Lost&Found si dice Oggetti Smarriti» chiarii. «I gringos sono più ottimisti: credono che le cose si possano ritrovare».
«Mi tengo quelli che mi dicono qualcosa».
Il suo armadio era come la mia memoria: pezzi spaiati, parti di qualcosa.
“Che ti racconta il tuo armadio?” Non osai farle la domanda. La risposta poteva essere troppo triste.
La luce dorata del tramonto mi depresse ancora di più.
«Cos’hai?»
«Il sole mi deprime».
«Sei un freak. È l’oscurità a deprimere».
«Mi piacerebbe essere un negro cieco. Un negro cieco in una stanza senza luce. Un negro cieco in una stanza senza luce in Camerun».
Juan Villoro, La Piramide
traduzione di Maria Cristina Secci
gran vía, 2013