[Recensione] In questo progresso scorsoio di Andrea Zanzotto

Creato il 14 maggio 2013 da Queenseptienna @queenseptienna

Titolo: In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda
Autore: Andrea Zanzotto
Editore: Garzanti
ISBN: 9788811681113
Anno: 2009
Lingua: italiana
Numero pagine: p. 127
Prezzo: € 13,00
Genere: libro intervista
Voto:

Contenuto: Emergenze climatiche e crisi ambientali, conflitti per l’energia e fondamentalismi religiosi, turbocapitalismo in panne ed eclissi degli idiomi minori: agli esordi del nuovo millennio, ci troviamo immersi in un “tempo che strapiomba”, si aprono nuove difficili sfide, che stiamo affrontando inconsapevoli. Una certa teoria del progresso, sordida e indifferente all’etica, rischia di portarci verso l’autodistruzione. Sono riflessioni come queste ad angosciare oggi Andrea Zanzotto, maestro di coscienza, oltre che autore di versi fra i più importanti e profetici del Novecento. In queste conversazioni, frutto di una lunga amicizia e consuetudine, il poeta ripercorre con Marzio Breda la propria esperienza umana, culturale e creativa. Soprattutto tratta alcuni temi chiave del nostro presente, quando è più che mai necessario riscoprire il passato per sondare il futuro: paesaggio e linguaggio, storia e memoria, fede e politica, eros e psicoanalisi…

Recensione: Andrea Zanzotto (1921-2011) raramente ha lasciato Pieve di Soligo (TV), dove è nato. È divenuto poeta e paladino delle montagne, delle colline, delle valli deturpate dalla I guerra Mondiale, tanto da mutarne il nome (Sernaglia, Nervesa, Moriago, cui è stato aggiunto il suffisso della Battaglia). Ha preso allora la penna in mano e li ha cantati, questi luoghi, lasciandoci inevitabilmente un ritratto di sé.

Ha denunciato instancabilmente il parto del progresso: la Los Angeles Veneta, la megalopoli padana, il paese dei Balocchi (per non dire Baiocchi), il serpentone vorace che si è cibato di campi, di suoli, delle colline un tempo luoghi di favole e fate. Si è passati dalla selce dell’Arcadia pagana al silicio dell’Arcadia telematica, pregiudicando la possibilità stessa di mantenere e maturare, dell’uomo, un’idea alta e libera, al punto che non trova più spazio un’identità o una memoria da difendere. L’importante è la sicurezza del quattrino, abbattere la paura di tornare poveri e le tracce del mondo di quando si stava in miseria. Perché il ricco Nord-Est, a ben vedere, è nato dopo tutto il resto. Il progresso e la sua velocità hanno prodotto insicurezza, la instabilità che sa di schizofrenia e paranoia. Per esempio chi oggi volesse preservare un angolo del paesaggio altrimenti offeso, il giorno dopo viene sorpreso sotto un’altra bandiera, a lottare per il motivo contrario. La realtà stessa è avvinta dalla contraddizione dei suoi termini. Guai a uscirne:

si crea una struttura oscillante di non-sensi… entro cui è destinata a naufragare ogni logica.

Si perde l’indispensabile resistenza, e se essa è presente, è comandata dall’occasione del momento, senza progetto. Nulla impedisce lo slittamento verso il peggio, all’insegna di un progresso distruttivo tale da divorare se stesso, alla fine del quale non resta nulla a cui tornare. La continua devastazione della bellezza costringe ciascuno a cercare significato nel brutto che resta, e il contatto continuo e incessante con la bruttezza conduce a fenomeni regressivi al limite del disagio mentale. Disagio che viene etnicizzato, sviluppando umori rancorosi verso l’altro, il diverso. Poco importa chi esso sia:  un tempo si additava chi era nato e cresciuto al di là del Piave. Già allora non si guardava molto lontano.

Leggendo questo libro intervista comprendiamo come la cultura — quella più vera e autentica — sia sempre radicata nel territorio, nel paesaggio: quello antico dal respiro preistorico che da millenni, senza chiedere nulla in cambio, ha accolto e accoglie gli insediamenti umani.

Il paesaggio va salvaguardato in tutte le sue forme, mai vilipeso, perché si estirperebbe quanto vi sia cresciuto sopra, acquisendo una cultura. La cultura difficilmente può conservarsi senza custodire e difendere il territorio, tanto che la sua devastazione segue i dissesti sociologici e psicologici, coinvolgendo la storia individuale di ciascuno.

Ogni civiltà è radicata nel proprio ecosistema. Se questo diviene artificiale, si fa prigione o scompare sotto i nostri occhi, non rimane che il poeta a raccogliere relitti e reliquie di un mondo in dissolvimento, trasformando in parole quel poco che resta: un universo a parte, segregante quanto uno spazio vitale che si consuma, da cui non si vuole uscire, per la paura di perderlo. Quasi quasi ti è impedito di crescere, nel senso di andar via di casa, via dai paesi tuoi. Questa non è una scelta: la scelta diviene impossibile. Ci vuol poco allora a tentare di mettere radici a ritroso, nei ricordi, non potendo infilarsi, queste, tra i biglietti di banca o nel cemento.


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