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Recensione: “Io che non vivo senza te”, di Laura Wiess

Creato il 26 novembre 2014 da Ceenderella @iltempodivivere

Mi sento in colpa, nell’aver saltato l’appuntamento con la recensione del lunedì. Non son riuscita a farci niente, il saggio che dovevo preparare in inglese e il personal statement avevano scadenze imminenti e han deciso di richiedere tutta la mia attenzione. Eh, lo so, capita anche di dover studiare e la cosa non mi piace proprio quando mi porta via tempo per me e quest’angolo di carta e pensieri che mi frullano per la testa e che, bene o male, proprio a quegli impegni mi ha portato. Quindi, oggi avevo in mente altro, ma, complice un articolo che mi è capitato sotto gli occhi, ho deciso che era tempo di provare a parlare di un libro la cui recensione ho a lungo rimandato. Abbiate pietà, parlar di questo libro è mettere a nudo una parte di me e non so quanto sarà sensato quel che ne sta per uscire. Ad ogni modo, ve lo consiglio dal cuore, col cuore, per il cuore.

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Titolo: Io che non vivo senza te [TO Me since you]
Autrice: Laura Wiess
Traduttrice: Mariafelicia Maione
Editore: Newton Compton
Anno: 2014
Pagine: 384

Rowan Areno ha solo sedici anni, ma la vita l’ha già messa a dura prova. Solo pochi mesi fa era una normale ragazzina, che amava ridere e divertirsi con le amiche, poi suo padre – il suo forte, infallibile papà – si è suicidato, lasciando a lei e sua madre solo un mucchio di domande destinate a rimanere senza risposta. Sono passati alcuni mesi ormai da quel terribile giorno di maggio, ma Rowan non è ancora riuscita a fare davvero i conti con il trauma della perdita. Non capisce come suo padre abbia potuto scegliere di abbandonarla, come abbia potuto compiere un gesto così estremo. Rowan è a pezzi, ma proprio quando ormai ha perso la speranza, ritrova Eli, un ragazzo con cui aveva condiviso un’unica, magica serata prima che la sua vita andasse in rovina. Anche lui è stato ferito, anche lui ha perso qualcuno che amava. Rowan ed Eli insieme, tenendosi per mano, forse possono cercare di resistere, di rialzare la testa, di dare un senso al passato e lasciarselo alle spalle…

Ci sono dei libri dei quali, anche a distanza di mesi dall’averli letti, fatico a parlare e la ragnatela di parole che spesso riesco a creare quando il soggetto è la carta stampata mi rimane incastrata in gola, aggrovigliata intorno ad un groppo di sensazioni fastidiose che non riesco a far scivolare via come vorrei. Ma ho letto varie critiche negative a questo libro per esimermi dal difenderlo, dal parlarvene, da sperare, con un pizzico di presunzione, di far emergere un differente punto di vista. Colpa l’averlo etichettato come uno young adult intriso di romanceIo che non vivo senza te è un libro a cui ci si avvicina impreparati e che poi fa un male cane leggere, di quel male che non ti aspetti arrivare e per questo ancora più potente, forte del suo essere inaspettato. Forse è il masochismo che mi fa amare questo libro, forse la mia propensione nello scegliere sempre qualcosa che mi segni, non solo per quanto riguarda le preferenze letterarie, il bisogno di provare qualcosa di forte che in qualche modo lasci una traccia indelebile; e forse proprio per questo l’ho sentito vicino a me, in una maniera talmente profonda da non riuscirla a spiegare. La Wiess affronta tematiche che vorrei dire sconosciute, figlie di un dolore sordo a cui nessuno vuol dar voce, pronunciate negli angoli bui con un filo di voce, ché parlar di depressione e suicidio è sconveniente, quasi fossero colpe per non aver saputo vivere come gli altri, una mancanza di coraggio e forza che si vuol allontanare da sé per paura che siano contagiose. Sono questioni con le quali purtroppo ci si trova a dibattere, senza spiegazioni, senza voce, senza aiuto, spesso. E non è semplice metterle nero su bianco, dar la parola a personaggi che di parlare non hanno voglia, che sprofondano sempre più in un buco vuoto al centro di se stessi che non vede la fine né un appiglio; il rischio di cadere nel patetismo – nell’accezione più generica possibile – è dietro ogni angolo, si nasconde in ogni sillaba e resta in agguato: sono trappole per scrittori che solo i più abili riescono a superare indenni. Neanche devo dirvelo che quest’autrice ha di che insegnare a molti.

Ti ho mai detto cosa è stato davvero per me?
Cosa è stato il lutto finora, col cuore in mano?
No? Allora ci provo.
È la tempesta perfetta, papà, e colpisce come un’enorme palla da demolizione che compare dal nulla e sbatte dritta contro il cervello. Distrugge tutto. Le tue emozioni sono un macello: un attimo piangi, l’attimo dopo ridi, quello dopo ancora riesci a malapena a sollevare la testa per l’agonia in cui sei caduto. La vita si restringe: non ti interessano più le stesse cose di prima e reagisci in modo esagerato alle cose che per te contano adesso. Hai bisogno di sostegno ma vuoi rimanere solo. Addio memoria a breve termine. Ogni passo è come farsi strada a fatica in una fossa piena di fango. Ti senti improvvisamente esausta e riesci solo a dormire. Ti giudichi di continuo col senno di poi. Non riesci a guardare nessuno negli occhi, per paura di trovarci il biasimo, o il sospetto o il giudizio. Ti senti piccolo, debole, in colpa. Fai pensieri strani, fai cose strane. Hai tutti i nervi a fior di pelle, ma il cervello diventa un casino indistinto e inaffidabile. Piangi tanto che non ci vedi più e il cibo perde sapore, ma all’improvviso riesci a sentire l’odore di un calzino sporco tre camere più in là. L’umore va su, va giù, giù, su, come sulle montagne russe impazzite, a folle velocità, fuori controllo, e non puoi scendere, non importa quanto lunga o tremenda sia la corsa.

Non si parla di amore adolescenziale, qui, o, se non altro, non lo si pone al centro della narrazione, perché, in fondo, l’amore è il velo sottile che unisce le vite di persone distrutte dalla vita e le intreccia in maniera imprevista, in un effetto domino che lascia sconvolti per l’enormità della sua portata, per tutti quei “se” che pone in essere e sedimentano nelle menti, le tormentano e riempiono di domande a cui nessuno sa dare risposta. Perché a volte, semplicemente, una risposta non c’è.
Non c’è risposta che darà a Rowan indietro suo padre, l’eroe della sua infanzia che le ha sempre nascosto il lato brutto del suo mestiere per proteggerla dalle brutture del mondo e le raccontava soltanto gli aneddoti divertenti per vederla sorridere – unico gesto che gli è concesso da un’adolescente che si sta allontanando, che sperimenta la vita lontano dalle braccia dei suoi genitori; unico gesto che gli permette di sentirla ancora bambina da coccolare, come le notti nelle quali la bacia sulla testa quando dorme e non può fermarlo. Né c’è risposta per sua madre al perché che la tiene distesa su un divano a mangiare cibo take-away e a leggere libri sul lutto, al motivo per il quale quell’unica volta l’amore della sua vita ha deciso da solo, senza consultarla, frantumando per sempre la loro famiglia, cambiandone ogni membro in maniera inesorabile. Non c’è nemmeno per i suoceri di Nick, il padre di Rowan, stretti tra il dolore di veder la figlia distrutta e la nipote allo sbando e il dolore d’aver perso quello che consideravano un figlio che non ha saputo parlar loro di quella malattia oscura che gli mangiava la vita dall’interno. Non c’è per Eli, vittima del caso per l’essersi ritrovato a passaggiare su un ponte quando un ragazzo disperato tentava – per poi riuscirci – di uccidersi e portare il figlioletto con sé, e vittima della vita, con l’anno più brutto della sua breve esistenza non ancora alle spalle e problemi da affrontare che nessuno capisce. Non c’è stata per Nick, che di tragedie ne aveva viste parecchie e sempre era riuscito a relegarle in un angolino buio e remoto nel quale non accendeva mai la luce, per non lasciarle parlare; non c’è più stata soluzione per quella depressione che lo ha lacerato, per quelle infamie che la gente gli getta addosso con violenza, senza riflettere, per quel sentirsi inutile ad ogni azione. Non c’è risposta per il suo suicidio e nessuno vive senza di lui. Quel foro di proiettile nel poggiatesta non è che l’immagine di quel buco nero nel quale tutti sprofondano, si affossano fino alla gola ed annaspano talvolta, si lasciano andare in alcuni momenti. Sono vite che si fermano, nell’esatto momento in cui Nick preme il grilletto, in stallo per mesi senza che nessuno se ne curi, come la posta accumulata su un mobile giorno dopo giorno.

Prometti che non ti arrabbi se ti dico un’altra cosa?
Ho paura di farlo, perché la parola detta non torna indietro, ma…
Odio il modo in cui sei morto.
Mi vergogno che tu abbia deciso di lasciarci, come se quello che avevamo come famiglia non fosse abbastanza per tenerti qui.
Come se io non fossi abbastanza per farti restare.
Mi vergogno di quello che probabilmente questa situazione dice al mondo, odio il modo in cui mi guarda la gente adesso, come se fossi così misera da non essere nemmeno in grado di tenere in vita mio padre, o tanto orribile che ti sei ucciso solo per liberarti di me.
E non voglio sentirmi così.
Non voglio passare il resto della vita a nascondermi qui da sola perché adesso sono «meno di», perché anche se non lo dicono lo vedi nei loro occhi, e mi fanno sentire piccola, davvero piccola e nauseata.
Non voglio che il modo tremendo in cui sei morto diventi più importante di quello meraviglioso in cui sei vissuto, ma non so come impedirlo.
Mi hai salutata con un bacio migliaia di volte, papà, ma quella mattina l’hai fatto?
L’hai fatto?
Perché finché non lo saprò, mi sentirò come se non sapessi davvero niente.

Non c’è sollievo, tra queste righe, per molte pagine; si viene risucchiati in un vortice di dolore senza fine che non fa che accrescersi e annerire le giornate di chi lo vive e, prova, forse nemmeno, a superarlo. Rabbia, silenzio, parole taglienti: ognuno ha il proprio modo di affrontare il lutto e quel che la gente non capisce è che le frasi di circostanza non aiutano, né i tentativi di scuotere chi sta rivivendo ogni momento nella speranza di trovare il punto esatto di rottura. Non c’è una formula magica, non esiste un numero limitato di giorni entro i quali elaborare tutto per poi liberarsi e riprendere a vivere. C’è delicatezza, quella della Wiess, con una prosa che non ha bisogno di ridondanze per giungere al punto, a rendere talmente vivida la disperazione da costringere chi legge a sentirla sulla propria pelle, a viverla come Rowan, il suo papà e la sua mamma. Come una famiglia che era bellissima e deve capire come tornare ad esserlo, secondo la propria strada. Finché nel buio, poi, d’un tratto, un raggio di sole buca i nuvoloni, si crea un passaggio e lascia intravedere le scintille flebili di una rinascita. Di un’accettazione che non significa aver dimenticato o essersi messi una tragedia alle spalle, ma l’averla accettata. Aver accettato che niente sarà mai più come prima. Aver accettato e perdonato. Continuare ad amare come, più di prima.
Io non lo so se tutto quello che ho detto ha senso, so solo che leggere questo libro mi ha smosso dentro qualcosa e toccato corde che vorrei non fossero più così scoperte, ma che è un male che fa bene ed ha un retrogusto dolce. Un libro che è vita, in tutto ciò che questo comporta. Questo mi basta per consigliarvelo.

Voto: ❤❤❤❤❤


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