Autore: A. M. Homes
Editore: Feltrinelli
Traduttore: Adelaide Cioni
ISBN: 9788807722066
Num. Pagine: 231
Prezzo: 8,50€
Voto:
Trama:
Jack è un adolescente americano. Ama il basket. Il suo migliore amico è Max. Vive solo con la madre, e con i suoi amanti di turno, da quando i genitori hanno divorziato. È passato del tempo da allora, ma i suoi ancora non riescono ad andare d’accordo e quando il padre lo viene a prendere si ferma sempre con la macchina in mezzo alla strada per mantenere una certa distanza dalla sua ex casa. Ma fin qui niente di troppo traumatico, una realtà talvolta penosa con cui però Jack può fare i conti. Tutto cambia invece quando il padre un giorno, all’improvviso, gli confessa la vera ragione per cui ha lasciato la moglie: vive con un altro uomo, ci dorme assieme, insomma è gay. Questo è troppo per Jack, non riesce proprio ad accettarlo, teme che lo stigma e la riprovazione sociale ricadano su di lui. Dapprima rifiuta anche solo di rivedere il padre, poi pian piano comincia a scardinare i propri pregiudizi, la sua idea di famiglia e il suo criterio di normalità. A. M. Homes, in questo suo romanzo d’esordio, si mette nei panni del teenager alle prese con una realtà più grande di lui e, narrando in prima persona la vicenda, ne segue l’ambivalente alternarsi di emozioni, la conflittuale maturazione, con ironia, acume e freschezza. Ne esce un originale romanzo di formazione commovente e divertente insieme, profondamente autentico nel cogliere gli stati d’animo dell’adolescenza.
Recensione:
Jack è il primo romanzo che leggo della famosa autrice Amy M. Homes. E posso affermare con una certa sicurezza che sarà anche l’ultimo.
Questo è uno dei classici libri meh. Né bello né brutto, decente, mezza via, insapore, inodore, incolore, che si finisce di leggere e si mette da parte perché non lascia nulla. D’altronde il Jack del libro viene paragonato al giovane Holden, quindi si tratta di ragazzini capricciosi con ben poca sostanza. Detta chiaramente.
Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1989 e quindi in un periodo in cui il mondo LGBT cominciava ad attirare le attenzioni dei media, parla di Jack, di suo padre che se n’è andato di casa dopo aver preso coscienza di essere gay, e di sua madre, una donna che sta ancora affrontando la delusione del distacco. Quando la verità sulla separazione dei suoi genitori viene a galla, Jack ha una reazione di rifiuto: non riesce a concepire in nessun modo che suo padre se ne possa essere andato, e con una motivazione così assurda. E la storia prosegue così, sciorinandoci aneddoti di importanza secondaria, tra una delle più belle della scuola che perde casualmente la testa per lui, le partite di basket in cui non si capisce bene se sia un campione o una schiappa, tra i deliri isterici di sua madre e la compagnia di un amico un po’ suonato.
Francamente la relazione tra il protagonista di questo libro e Holden mi pare azzeccata: insignificanti individui entrambi.
Alla scoperta dell’omosessualità del padre Jack reagisce un po’ rabbiosamente, ma è comprensibile: è disorientato, sente di aver perso un punto di riferimento, non comprende come una realtà così grande possa toccare proprio lui, e proprio così all’improvviso, ed è naturale che gli occorra del tempo per prendere coscienza del grande cambiamento.
Peccato che non lo faccia. Peccato che non si sforzi nemmeno di farlo.
Jack tenta di tagliare suo padre fuori dalla sua vita, ma poi, rendendosi conto di non poterlo fare, cede e si arrende, accettando di fare qualche piccolo passo nel suo mondo. Tutto ciò che riesce a fare è essere imbarazzato e cercare di fare finta di nulla quando il padre è col compagno. Non si degna di riflettere sulla situazione, di pensare al padre non appunto come a un padre ma come a un essere umano con sentimenti individuali, non arriviamo neanche a conoscere la sua opinione sulle differenze di orientamento in genere. Semplicemente l’aspetto che fa da perno alla storia viene tralasciato.
Jack continua la sua vita, si arrabatta, forse si innamora, assiste allo sfacelo di un’altra famiglia, si fa male, e l’insieme di cose fa sì che verso la conclusione le cose giungano a un punto di equilibrio che potrebbe essere chiamato lieto fine.
Lieto fine soltanto giudicando in base alle sequenze simil-cinematografiche della bella cenetta in compagnia.
L’introspezione continua a essere nebulosa, le elucubrazioni di Jack fino all’ultimo sono un rincorrersi di ordinarietà senza particolare spessore, è come se si auto convincesse che d’ora in poi le cose andranno per il verso giusto perché sì.
Ho terminato il libro con una certa perplessità, senza capire cosa mai l’autrice avesse voluto trasmettere.
Le tribolazioni di un adolescente alle prese con una vicenda familiare turbolenta? Obiettivo fallito, visto che per farlo avrebbe dovuto dare un diverso tipo di spazio all’analisi psicologica di Jack, il quale invece si è limitato a comportarsi come se la faccenda non lo riguardasse da vicino ma solo attraverso un schermo.
La crescita interiore di un ragazzo costretto per forza di cose ad ampliare la sua visione della vita? A malapena la freccetta si è conficcata nell’anello più esterno del bersaglio, dato che soltanto nelle ultimissime pagine ho riscontrato una parvenza di cambiamento, e non sembrava neppure che ne fosse positivamente colpito.
Devo dedurne che la Homes quando lo scrisse non aveva poi le idee chiare su come affrontare l’argomento? O invece nel tentativo di non sfondare la barriera tra narratore e personaggio abbia mischiato confusamente considerazioni proprie con quelle di Jack, col risultato di non arrivare a nulla di fatto?
Non lo so.
So solo che se non lo leggete non vi perderete un bel niente.
Le tre stelle sono per lo stile scorrevole, per le scenette abbastanza umoristiche che riescono a strappare una risata di tanto in tanto, e per la parentesi rappresentata dal soggiorno in casa Burka che almeno ha dato il la per la svolta utile, se ve lo stavate chiedendo.