Joy, un film di David O. Russell. Con Jennifer Lawrence, Robert DeNiro, Edgar Ramirez, Isabella Rossellini, Virginia Madsen, Diane Ladd, Bradley Cooper.
Un film rispettabile, anche se non all’altezza dei precedenti di David O. Russell (The Fighter, Il lato positivo, American Hustle). Un altro dei suoi corrosivi ritratti di famiglia nell’America white trash. Dove la storia della donna che inventò il mocio e liberò le casalinghe dai panni sporchi è solo un pretesto per dispiegare il talento grottesco del regista. Peccato che Joy nell’ultima parte sprofondi nella retorica dell’american dream in versione femminil-emancipazionista. Ottima Jennifer Lawrence. Voto tra il 6 e il 7
Anche se non all’altezza di quanto David O. Russell ci ha dato negli anni scorsi (in bell’ordine: The Fighter, Il lato positivo, American Hustle), questo suo nuovo Joy non è niente male, di sicuro meglio di come certe malmostose recensione prima negli Usa e poi dalle nostre parti lascerebbero pensare. Un film che conferma il suo talento di autore dondolante tra cinema indipendente e mainstream, con qualche pencolamento in più verso il primo. Ci era stato ampiamente spiegato prima del suo arrivo di come Joy fosse la vera storia – con qualche necessaria fictionalizzazione – della signora italo-americana Joy Mangano che con l’invenzione del suo mocio tecnologico aveva liberato negli anni Settanta la casalinga americana dall’orrore di dover mettere le mani nei panni sporchi passati sul pavimento. Ma l’aggeggio, che poi a vederlo nel film non è così geniale anzi un po’ troppo complicato, è solo un pretesto perché David O. Russell imbastisca un altro dei suoi acidi ritratti di famiglia nell’America white trash nei trashissimi Seventies. Povincia profonda e gente di poca o nulla istruzione dedita per campare a lavori non proprio qualificati, gente aspirante alla middle-class ma sempre a rischio di precipitare all’ultimo gradino della scala sociale. Se The Fighter era ed è tra tutti i Russell-movies il più allarmante, e il migliore, questo Joy ne è la versione aggraziata, ammorbidita e ripulita, anche smussata delle asperità a uso di un pubblico che non tiene e non vuole tenere pensieri qual è nella sua maggioranza quello attuale. Ridotto al suo scheletro narrativo, Joy è la solita storia dell’american dream, il racconto di quella speranza-illusione di ascendere dalle-stalle-alle-stelle, di passare dall’ago-al-milione che resta la più solida e immarcescibile mitologia Usa. Puoi farcela, se vuoi. Ce la fa Joy Mangano, che da casalinga disperatissima riesce a conquistarsi una vita agiata e una discreta felicità. E però questa parabola così esemplarmente, integralmente americana è la parte meno interessante del film, e la più ovvia, oltretutto fastidiosamente virata com’è in chiave di emancipazione femminile e femminista. Con tanto di trionfo di Joy in quanto donna che ha spezzato le sue catene e s’è liberata dal giogo e dalle varie servitù al maschio e ai family values: lei che ha dovuto rinunciare al college per star vicina alla madre depressa dopo il divorzio da papà, lei che, sposata e poi separata da un simpatico ma nullafacente musicista, ha dovuto tirare la carretta con tre figlioli a carico. Lei che, una volta arrivata al successo, si sentirà in obbligo di aiutare altre donne aspiranti imprenditrici incomprese e conculcate. Più interessante è la prima parte, con Joy incasinata e incastrata in quella vita di povera donna che deve pensare a tutto, alla madre che non si muove dalla sua camera dove ingoia ore e ore di soap opera (che sono il lato camp del film, con quei costumazzi anni Settanta-primo Ottanta e raccapriccianti capigliature gonfiate col phon e scolpite con la lacca), al padre travolto dall’ennesimo disastro economico e tornato a vivere nella casa di famiglia, al marito fancazzista che, pur divorziato, mai s’è mosso da quella casa continuando a farsi mantenere. E Joy, una al solito strepitosa Jennifer Lawrence di inesauribile energia e più dominatrix della scena che mai, lì a lavorare notte e giorno, e neanche per se stessa oltretutto, ma per tutti quei vampiri che le succhiano il sangue. David O. Russell compone il suo racconto di questo microscosmo white trash benissimo, puntando sul grottesco, dispiegando tutta la sua attrazione-repulsione rispetto a un mondo così cafone, a quella gente grossolana e senza la minima finezza né estetica né intellettuale, e però vitale, e sempre urlante e gesticolante, come in un Sofia Loren&Marcello Mastroianni-movie anni Sessanta. Che siamo sì in America, ma pur sempre in una famiglia di nome Mangano e dunque inconfondibilmente di radici italiane, con Robert DeNiro nel ruolo del babbo messo lì anche quale icona del cinema italo-americano tutto. Assistiamo divertiti e non senza partecipazione alla scalata tra molti ostacoli di Joy. Quando convince la ricca neofidanzata di papà (un’assai divertente Isabella Rossellini come vedova italiana di un tizio che l’ha lasciata molto, molto ricca) a finanziare il mocio, quando incomincia a produrlo e cerca di venderlo fuori dai mall, quando si fa fregare da un infido socio californano. La svolta arriva allorché incontra il govane manager di una rete di televendite (medaglione di Bradley Cooper) che, come il principe o la fatina delle favole, le fornisce la grande occasione dandole la possibilità di pubblicizzare sull’emittente il rivoluzionario mocio. Più complicato di quello che tutti abbiamo in casa, che francamente non si capisce come la signora Joy Mangano abbia potuto venderlo a vagonate costruendo la propria fortuna in milioni di dollari (più interessante secondo me è uno dei suoi successivi brevetti, l’appendino con le spalline ricoperte di velluto per non far scivolare i capi). La parte televisiva con Joy che fa dell’imbranataggine e non conoscenza del mezzo il proprio punto di forza diventando la migliore venditrice di se stessa e dell’ingarbugliato puliscitutto è tra le cose notevolissime del film, con David O. Russell che si butta con evidente godimento nella deformazione grottesca di quell’universo, di quella fiera sberluccicante della merce-spettacolo. Poi il film si infiacchisce e diventa un edificante e stucchevole inno alla protagonista, alla sua caparbietà e, ahinoi, all’imprenditorialità femminile. Ma per fortuna tanta insostenibile retorica non basta a mandare a fondo Joy, che resta un prodotto rispettabilissimo, specie per come descrive un altro dei piccoli inferni familiari alla David O. Russell con le sue avidità, sopraffazioni, guerre intestine tra parenti stretti e anche strettissimi. Ottime le performance attoriali. Non solo da parte di Jennifer Lawrence e Isabella Rossellini, ma anche di un Robert DeNiro finalmente non straripante e gigionesco, di Edgar Ramirez (il marito), di Virginai Madsen (la madre depressa) e della fantastica Diane Ladd (la nonna). C’è anche un amore imprevisto tra una bionda signora e un idraulico black che le insegna le ricette di Haiti. Per dire quanto Joy non sia proprio ovvio.