[Recensione] L’elenco telefonico di Atlantide di Tullio Avoledo #distopia

Creato il 25 maggio 2012 da Queenseptienna @queenseptienna

Autore: Tullio Avoledo
Titolo: L’elenco telefonico di Atlantide
Editore: Sironi
Anno: 2003
ISBN: 9788851800123
Pagine: 527
Prezzo: € 17,00
Voto:

Trama: (tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/L’elenco_telefonico_di_Atlantide)

“Giulio Rovedo lavora come legale per una piccola banca, la CCCPT – Cassa di Credito Cooperativo del Tagliamento e del Piave e abita nel cupo e misterioso condominio nominato il Nobile di Pista Prima, una grande e importante città del nord-est d’Italia. In pochi giorni Rovedo si trova al centro di una serie di vicissitudini all’apparenza frutto di una spietata normalità: la piccola banca per cui lavora sta subendo l’assorbimento da parte del grande gruppo di Bancalleanza e la casa madre di quest’ultima la Convenant Foundation; la sua vita al Nobile è disturbata da un vicino molesto; la nuova responsabile del personale di Bancalleanza, Cecilia Mazzi, lo concupisce e riesce a informare la moglie di Giulio, che lo mette alla porta. Rovedo si lascia convincere da due strani personaggi che tutto ciò non sia frutto del caso, ma che dietro ci sia un progetto planetario, pilotato dalla Convenant Foundation, volto a ritrovare l’Arca dell’Alleanza e far tornare al potere gli Dei dell’antico Egitto. Secondo questa strana teoria, i sotterranei del Nobile potrebbero celare l’Arca, in quanto epicentro di accadimenti fuori dal comune come la scoperta d’una presunta Fonte della giovinezza. Dopo un’indagine frettolosa ma fruttuosa, Giulio viene a capo di questo strano mistero. Ma il finale del romanzo ribalta completamente ciò che sino ad allora sembrava essere la realtà.”

Il finale ribalta la realtà come un calzino, ponendo nel nulla le perplessità sulla scrittura che possono aver toccato anche il lettore meno accorto. Sono le ultime cinque pagine a trasformare questa storia in un romanzo distopico, richiamando le atmosfere dei romanzi di Philip Dick, creando una distorsione spazio-temporale che dire terrificante è poco.

Recensione: In un articolo di Francesco Clochiatti, dedicato al romanzo di Avoledo (http://www.fantascienza.com/magazine/libri/4447/l-elenco-telefonico-di-atlantide/) si legge:

Inserire L’elenco telefonico di Atlantide nella categoria dei thriller non è del tutto corretto. Come non sarebbe corretto inquadrarlo come fantasy o come fantascientifico o come horror. Il libro di Avoledo prende diverse caratteristiche da tutti questi stili e le integra in un unicum…”.


La storia infatti è molto intricata e appare notevole l’abilità dell’autore di districarsi in un disegno che mantiene il suo equilibrio e il suo ordine  tra le pieghe di un tracciato geometrico, in un innesto di trama e ordito privo di sfilacciature. L’autore dell’articolo ha ragione: è un unicum, un unicum compatto.
Il nome del protagonista richiama quello dell’autore: Tullio Avoledo, anch’egli impiegato nell’ufficio legale di una banca. Ha la consapevolezza di vivere in un mondo immobile, che si trascina senza soluzione girando su se stesso:

“Da bambino immaginavo i treni del Duemila come pallottole d’argento, monorotaie e treni a levitazione magnetica che avrebbero unito le città d’Europa in un baleno”.

La dimensione nella quale vive sembra non ammettere l’originalità, la creatività, domina piuttosto la logica razionalizzante della pianificazione, dell’omogeneità che tutto amalgama e ricompone. Traspare velatamente un apparato tutt’altro che democratico ma gerarchico, anche se non è mai chiaro chi tenga le fila del potere, c’è sempre qualcun altro dietro il potente di turno.

Se l’ambientazione non è il futuro prossimo, è comunque un presente prossimo destinato a precipitare, perché è sufficiente aprire una porta piuttosto che un’altra per ritrovarsi in un mondo parallelo ancora più fatiscente e doloroso:

“Fra gli infiniti mondi paralleli che secondo lei esistono, ce n’è anche qualcuno dove i tedeschi hanno vinto la guerra?”
In quasi tutti gli altri universi la Germania nazista ha vinto la seconda guerra mondiale. Questo mondo è l’anomalia”.

Ciò è quanto Giulio Rovedo apprende da un misterioso personaggio incontrato sul treno, un certo Libonati che raccoglie cimeli da altre dimensioni quali monete, carte geografiche, un numero di Urania mai uscito: L’elenco telefonico di Atlantide di un certo Jonh D. Krieger.
Cosa ha detto di preciso l’uomo del treno? Che quello che si vede è solo l’ombra del mondo, la parvenza dei principi di causa ed effetto, di razionalità. Come a dire che tutta l’Umanità si muove lungo il filo del rasoio, sull’orlo di un abisso spaventoso. Se si riuscisse a unire tra loro i vari collegamenti, a individuare una regola anche dove sembra non vi sia, magari dietro una coincidenza o all’ombra di un’eccezione, si intravedrebbe un disegno, un progetto. Ma di chi? Vale la pena saperlo?
Ci domandiamo a un certo punto in quale dimensione viva Giulio Rovedo. E’ come se incombesse una minaccia latente, un cielo nero e minaccioso, dove si toccano con mano le atmosfere di Philip Dick o di Orwell (non per niente le letture del protagonista contemplano La svastica sul sole e 1984), atmosfere che un Vecchioni che da un’autoradio si sente cantare Samarcanda non fa altro che intensificare fino all’inverosimile.
L’inverosimilità delle immagini e dei pensieri di Giulio Rovedo è potenziata fino al grottesco proprio da questo continuo esprimersi de relato, come se mancasse l’esperienza diretta dei fatti narrati. Più che prendere a prestito le parole dal dizionario, Rovedo cita, cita e ricita attingendo dal mondo dei videogiochi, dei fumetti  (Martin Mystère) e del cinema (a tratti si sente molto Indiana Jones, fino a fischiettarne il motivo in un momento clou, guarda caso quando sta per intercettare nei sotterranei del suo condominio nient’altro che l’Arca dell’Alleanza). Molte scene sono un vero e proprio dejà vu.  Le battute sono di cassetta, rientrano tutte nel nostro patrimonio comune.
I richiami sono troppo evidenti, troppo disseminati perché non abbiano uno scopo. E il romanzo è talmente convincente, nonostante tutto, che il lettore accorto è invitato a non attribuire a ingenuità questi eccessi fumettistici o cinematografici. Sono suoi questi ricordi, è ubriaco, in coma, sotto ipnosi? A momenti Giulio Rovedo sembra entrare in una sorta di black-out, non sa dove si trova, i sensi gli si addormentano, come se qualcuno avesse spento un interruttore. A tratti è consapevole di un conto che non torna. Per esempio: il capo del personale, Cecilia Mazzi, come fa a vivere a Milano e non aver mai visto il Duomo? O ancora: quante cabine del telefono ci sono in piazza XX Settembre? Quanti Cinema? Cecilia Mazzi non lo sa, come non lo sa Giulio Rovedo. I singoli personaggi e i loro pensieri altro non sembrano che proiezioni di quest’ultimo, della sua psiche, del suo stesso immaginario.
Giulio Rovedo è il perno di tutta la storia, ma non l’artefice. Al pari degli altri personaggi  è una marionetta, (nelle mani di chi?) assomiglia a un pesce che mette il muso fuor d’acqua e vede ciò che si nasconde oltre, fosse anche qualcuno che assomiglia a un dio egiziano, che lo scruta e lo osserva, lo studia, lo spia.
In questa situazione di sensi smorzati, in questa atmosfera via via più indefinita e rarefatta, giungono le intuizioni più formidabili. Lo spirito si avvicina alla verità (quella più terribile della distopia): si immagina la possibilità di creare in un prossimo futuro  un microchip che, con i suoi 10 milioni di megabytes, possa registrare e racchiudere in una memoria artificiale un’intera vita,  “la massa di dati che un essere umano possa accumulare…. attraverso la vista, l’udito o l’olfatto”, qualcosa che superi la prospettiva stessa della morte qualora lo stesso chip  acquisti autocoscienza:

Non si renderebbe conto di essere una registrazione di dati in codice binario su una scheggia di silicio”.

Si svela una consapevolezza che ha l’effetto di uno squarcio nel velo di Maya e tale da far intuire quello che si trova dall’altra parte: la consapevolezza della scheggia di silicio  di essere “una lampadina appesa a un filo”, di essere racchiusa in un chip, quando non sogna di essere viva.


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