La recensione di Miriam:
Solitamente, quando finisco di leggere un libro, riesco a esternare le mie sensazioni con immediatezza. Alcune volte − poche per fortuna − mi capita, invece, di essere in difficoltà. Questa è una di quelle e non perché L’ultimo Khama non sia un buon romanzo. Conquistata a fatica l’ultima pagina, mi riscopro preda di emozioni contrastanti, difficili da conciliare e, ancor più, da condividere. Potrei esprimere il mio entusiasmo per la trama originale e l’idea portentosa che la ispira, ma allo stesso tempo potrei raccontare di una lettura che ho trascinato a lungo, nonostante la brevità del testo, che ha messo a dura prova la mia capacità di concentrazione e, più volte, mi ha fatto venire voglia di fermarmi prima di giungere alla fine. Sarei sincera nell’uno e nell’altro caso perché la verità è che ho amato e odiato questo romanzo in egual misura. Come dicevo, l’idea di fondo è strepitosa. L’autore narra di un mondo futuro in cui natura e tecnologia si sono fuse al punto da coesistere in simbiosi. È un mondo fatto di biometallo, di alberi capaci di affondare le radici nel cemento e di uomini che sembrano vivere in bilico tra passato remoto e modernità. Un mondo complesso, apparentemente contraddittorio, ma non l’unico dei mondi possibili perché ciclicamente l’universo si rinnova, finisce un mondo e ne comincia un altro. A reggere le fila del gioco sono gli dèi, o daimoni, che non sono sempre benevoli e probabilmente, agiscono nel rispetto di una legge naturale che prescinde dall’amore. Ci sono divinità della vita e della morte, divinità che concedono favori e altre che esigono un tributo di sangue. Scendere a patti con loro si rende necessario per preservare l’equilibro. Ecco allora che nel tempio di Reallach, periodicamente si rinnova il patto − Khama− tra dio e uomo nella speranza che l’apocalisse venga rinviata. Miya e Dobrak sono interpreti della volontà degli dèi, qualcosa di simile a dei Sacerdoti del tempio, designati a esser tali sin dalla nascita e votati a sacrificare la loro stessa vita per servire la causa. Essi sono indispensabili perché il patto si rinnovi ma, in previsione di quello che le profezie annunciano come l’ultimo Khama, accade qualcosa di imprevisto. Dobrak infatti si ribella al suo compito ritenendo che la religione si tutta un inganno. A suo parere, non sono divinità, non esseri soprannaturali, ma macchine antiche progettate e strumentalizzate per asservire gli uomini, che governano il mondo. Avrà origine così la sua personale battaglia per la verità, che gli costerà l’esilio e il cui esito decreterà le sorti dell’intero genere umano. Come spesso accade, interverrà l’Amore a scompaginare i piani e fungere da ago della bilancia in un contenzioso che chiama in causa la fede e, non da ultimo il concetto stesso di realtà. Una storia sospesa tra fisica e metafisica, tra fantasy e fantascienza, dunque, capace di fondere suggestioni mitologiche con altre di sapore futuristico, ricchissima di spunti di riflessione e di implicazioni filosofiche. Originale, profonda e impegnata, non ho potuto che trovarla estremamente interessante per i suoi contenuti non mancando di apprezzare l’incontestabile padronanza linguistica dell’autore, capace di uno stile forbito, raffinato, tecnicamente impeccabile. Da appassionata di filosofia non posso negare di essermi lasciata sedurre dall’intrigante ipotesi elaborata tra queste pagine, né posso dire di non aver subito il fascino di una tematica che, quasi dall’alba dei tempi, è al centro di accesi dibattiti. Dov’è allora la nota dolente? La mia impressione è che Stefano Andrea Noventa abbia eretto un muro tra sé e l’ipoetico lettore, una barriera che può essere forzata al fine di comprendere e carpire contenuti ma che impedisce del tutto il passaggio di emozioni. L’esposizione è tutt’altro che lineare, il lessico ricercato, a tratti, diviene ostico, la descrizione dell'ambientazione e dei personaggi, soprattutto, lascia molto all’immaginazione avvalendosi solo di pochissime linee essenziali. Si fa fatica a seguire il filo narrativo, si fa fatica a distinguere e riconoscere i numerosi personaggi perché davvero pochi sono gli elementi che ci vengono concessi per conoscerli. L’eccessiva eleganza e perfezione tecnica della forma finisce per schiacciare le emozioni, cosicché si riesce a intuire l’enorme potenzialità − anche emotiva – del romanzo, senza tuttavia riuscire a coglierla davvero. Il risultato è un’opera di qualità ma destinata, a mio parere, a rimanere di nicchia, un libro che si lascia leggere (e che vi consiglio se siete appassionati della materia) più come fosse un saggio filosofico che come romanzo di intrattenimento. Insomma, una creatura bellissima ma algida, per raggiungere la cui anima, vi toccherà impegnarvi a grattare la superficie e a cercare sul fondo. Se l'impresa non vi spaventa, potrebbe valerne la pena.