Recensione: L’ULTIMO LUPO. Avventura (un po’ vetusta) con uomini, lupi e praterie mongole

Creato il 26 marzo 2015 da Luigilocatelli

L’ultimo lupo, un film di Jean-Jacques Annaud. Con Feng Shaofeng, Shawn Dou, Ankhnyam Ragchaa. Al cinema da giovedì 26 marzo.
Il regista di Il nome della rosa, L’amante e La guerra del fuoco stavolta va in Cina a filmare una storia di uomini e lupi. Anzi, di un uomo – uno studente spedito dalla rivoluzione culturale a rieducarsi nelle praterie mongole – che cade innamorato di quelle bestie feroci e intelligenti. Una passione che porterà a parecchi rischi per lui e tutta la comunità. Un prodotto vetusto (sembra di tornare a certe hollywoodianerie anni ’50) e gonfio di retorica eco-ambientalista. E però i lupi, veri o ben simulati, son proprio belli. Voto 5
Non capita tanto spesso che un regista europeo o americano se ne vada a girare un film a tutti gli effetti cinese, con capitali, crew, location rigorosamente made in China. Lo ha fatto Jean-Jacques Annaud con questo L’ultimo lupo, budget di 35 milioni di dollari, panorami della Mongolia interna, quella parte di Mongolia inglobata nei confini della Cina, e una storia di uomini e animali selvaggi, secondo quel primitivismo, quel penchant per l’assoluto naturale già mostrato dal regista francese in L’orso e La guerra del fuoco. Alla base ci sta un racconto autobiografco che è stato in patria, e non solo lì, un clamoroso bestseller da svariati milioni di copie e che aspettava solo di essere portato in cinema, con quelle sue suggestioni già così visive, con i suoi branchi di lupi e le sue praterie, gli insediamenti umani, le yurte, i cavalli e i cavalieri. Ne esce uno spettacolone un po’ bolso e tronfio, da colossal di una volta, cinema popolare di semplificazioni e manichee contrapposizioni, cinema per uno spettatore ingenuo e eternamente bambino che forse non c’è più. Un’inattualità – film così li faceva Hollywood fino agli anni Cinquanta del secolo scorso – che rende L’ultimo lupo insieme decrepito e stranamente attraente, come una chincaglieria d’epoca. Con parti devo dire assai coinvolgenti, e son quelle con i lupi, lupi veri, e se non sono veri sono perfettamente simulati, con quegli occhi che davvero ti fan paura e non ce la fai a dimenticare. Mentre è pessima la retorica sul ritorno alla natura incontaminata, madre e matrigna, amica e nemica, e sui mongoli delle praterie reincarnazione ennesima del mito del bon sauvage, e più Annaud si sforza di mettere in scena il loro stile di vita, i loro riti e il loro senso di appartenenza cosmica (quelle invocazioni al dio o allo spirito del cielo!) e più sprofonda nel ridicolo. Come capitava in quei remoti western in cui il cinema americano cercava di restituire per così dire dall’interno il mondo altro dei nativi americani moltiplicando per paradosso il senso d’artificio. Con, in questo Le dernier loup, scene di massimo imbarazzo e comicamente drammatiche, o drammaticamente comiche, come i cuccioli di lupo scagliati in aria dai nativi perché ritornino al suddetto spirito del cielo, peccato che poi si spiaccichino al suolo in poltiglia sanguinolenta facendo sussultare di raccapriccio gli animalisti in sala (e di scene così ce n’è più d’una).
Siamo ai tempi della rivoluzione culturale, e caso vuole che un altro film uscito questo weekend, Lettere di uno sconosciuto di Zhang Yimou, tratti di quel tribolato perioo della storia cinese del secondo Novecento – e a questo punto aspettiamo che qualche distributore importi anche Red Amnesia, dove sempre di guardie rosse e rivoluzione culturale si parla, visto lo scorso settembre al festival di Venezia. Dunque: due sudentelli dell’università di Pechino, due perfetti cittadini, vengono mandati in stage rieducativo – per almeno due anni! – lassù nella Mongolia interna tra le tribù nomadi affinché imparino cosa sia la dura vita delle praterie, e a lavorare con le mani e depurarsi ed emendarsi di vizi, capricci e comodità borghesi e metropolitani. Di colpo si ritrovano a condividere una yurta e a disposizione del rispettato capo-villaggio, un vecchio saggio che molto ha visto e molto sa, e che diventerà – ma loro ancora non lo sanno – il loro mentore, colui che li introdurrà ai misteri, alle bellezze e pure ai pericoli dell vita selvatica. Chen Zhen, uno dei due studenti, in un’escursione a cavallo ha il suo primo incontro con i lupi delle praterie e, nonostante il rischio corso, ne resta segnato per sempre. Una fascinazione che diventerà man mano ossessione, e lo possiederà. Impara dai mongoli del villaggio come difendersi dai lupi, ma anche i loro usi, il loro procedere in branco, le loro strategie di attesa e di attacco, e “ricordati che sono animali di grande intelligenza, pazienti, non sottovalutarli mai”. Finirà che si prenderà un cucciolo di lupo e lo nutrirà e alleverà clandestinamente. Con conseguenze pesanti e imprevedibili. Quel piccolo lupo metterà in pericolo la sua vita, e vite e beni della tribù, causando una serie di effetti a catena, e saranno avventure, disavventure e contrasti. Intanto la natura cattiva ci mette del suo con improvvise tempeste e altri disastri, intanto l’ottuso responsabile politico che, per conto di Pechino, deve vegliare sulla compatibilità comunista della comunità fa di tutto per peggiorare le cose. Come distruggere l’ecosistema erigendo insediamenti là dove c’era l’erba delle sterminate steppe. L’asse narrativo resta però saldamente quello dell’amore di Chen Zhen per i lupi, e per il suo cucciolo, in una riedizione di ogni precedente classico sul tema uomini e animali, da Lassie a Rin-tin-tin. Ogni ruffianeria del genere viene puntualmente rispolverata e riaggiornata, e bisogna ammettere che, nonostante ogni evidente polverosità e inattualità, Annaud arriva più di una volta a smuovere e commuovere la platea. Film vetusto, come no, e però i lupi sono magnifici, da soli o in branco, cuccioli o adulti. Altro merito è di aprire qualche squarcio di un qualche interesse sulla Cina delle rivoluzione culturale, sull’assogettamento e controllo esercitato dal regime sulle realtà etniche periferiche. Il che non basta a salvare L’ultimo lupo, ma almeno ne bilancia un po’ l’esorbitante tasso di retorica ecologista e neo-rousseauiana.


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