Autore: Milan Kundera
Traduzione di: Ena Marchi
Editore: Adelphi
ISBN: 9788845914478
Anno: 1999
Lingua: italiana
Numero pagine: 157
Prezzo: € 9,00
Voto:
Trama: (da Wikipedia) In un castello francese adibito a hotel viene ospitato un convegno di entomologia. La trama, sullo sfondo del racconto erotico-sociologico Senza domani di Vivant Denon e qualche riflessione sul pensiero edonistico di Epicuro, intreccia le vicende di alcuni fra gli ospiti: personaggi di varia umanità che, come di consueto nelle opere di Kundera, incarnano i vizi e vezzi umani quotidiani.
Recensione: Il romanzo ha l’aspetto di un lungo omaggio a Vivant Denon (1745-1825), autore di Senza domani, da cui traggono spunto le storie destinate a richiamarlo, a carpirne il senso. La domanda di fondo parrebbe questa: si può vivere nel piacere per il piacere ed essere felici? E in sottofondo: si può parlare di un’avventura erotica senza usare parole indecenti?
Il Settecento è l’epoca in cui vivono Madame de T. e il giovane cavaliere, è il secolo del ricordo da rievocare fedelmente, dove il rapporto amoroso assume i contorni di un gioco di intelletto raffinato. Nella conversazione nulla è lasciato al caso, perché si impone un percorso a tappe obbligate: basta un colpo di vento, non rispondere a tono, scordare la battuta che la parte esige. Ci si trova in un palcoscenico sopra il quale incombe un rigido copione da rispettare.
Il Novecento, secolo in cui si muovono i personaggi di Kundera, è secolo della velocità, di corse e rincorse, breve per definizione (dal titolo del libro dello storico Eric J. Hobsbawm).
Qui le vicende di Berck, di Vincent, di Immacolata, del professor Cecopitschy (le cui vicende richiamano il protagonista de L’insostenibile leggerezza dell’essere) fanno sia da controcanto sia da contrasto ai fugaci amori di Madame de T., aprendo una porta temporale che consente alle due dimensioni di comunicare: nel finale Vincent si imbatte in un giovane cavaliere dallo strano copricapo, giudicato inelegante nell’aspetto. Entrambi hanno appena vissuto una notte meravigliosa, e in comune un sogno che si rivelerà effimero o eterno secondo la prospettiva di ciascuno: il cavaliere è calmo, quasi indolente, rivive attimo per attimo quella sera; l’altro si mostra impaziente, prossimo a sfrecciare da qualche parte con la sua moto, a lasciarsi alle spalle quello che è stato:
si aggrappa a un frammento di tempo scisso dal passato come dal futuro; si è sottratto alla continuità del tempo… e di conseguenza non ha paura, poiché l’origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato dal futuro non ha più nulla da temere.
Ciò che è avvenuto una volta, è come se non fosse mai avvenuto, Einmal ist Keinmal, disserterà Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere; tuttavia ciò che è avvenuto una volta soltanto può essere rivissuto all’infinito, può tornare in eterno.
Una regola ferrea crea un ponte tra due modi di essere e di vivere che non potrebbero essere più lontani e inconciliabili:
il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio.
Qui è detto tutto, tanto che possiamo comprendere il significato di un altro romanzo di Kundera. La lentezza è il prezioso scrigno della memoria, implica pesantezza, il ricordo, la realtà che preme sull’esistenza fino a lasciarvi un’impronta: quello che è stato ritorna, non ce ne possiamo liberare. Ma implica anche l’indugio, la sapiente tecnica del rallentamento. La velocità al contrario è leggerezza, oblio, abbandono, l’avanzare per l’aere perso, privi di appoggi e appigli. Diviene anche sinonimo di avventatezza, precipitazione, da cui discende lo smarrimento e il senso di colpa, l’insostenibile leggerezza dell’essere.
Nel romanzo qui preso in esame c’è una corrispondenza non arbitraria tra lentezza/velocità e pesantezza/leggerezza. In entrambi i casi si tratta di due poli dell’esistenza. Nel secondo sembra mancare un termine di paragone (così si esprime Kundera). Nel primo il termine di paragone è presente nell’incontro fuggevole tra un uomo del Novecento (Vincent) e un uomo del Settecento (il giovane cavaliere).
La legge di cui si è detto, se applicata al rapporto amoroso, è terribile. La lentezza è terreno dell’elezione, di un’esperienza completa, reale, assaporata in pieno. La velocità è un divoratore instancabile, nulla può mettere radici. Nel palcoscenico fanno la loro comparsa amori malamente corrisposti, ridotti a nulla e tendenti al ridicolo. Ridicoli e incresciosi appaiono quelli di Berck e Immacolata, di Vincent e Julie, in tutt’altra dimensione temporale seppur negli stessi luoghi in cui passeggiavano i personaggi di Vivan Denon.
Vincent prende presto la rincorsa e per eccesso di zelo non disserta solo della filosofia del boudoir del Marchese de Sade. Nelle sue elucubrazioni c’è di tutto, serpeggiano pure le fantasticherie erotiche di Apollinaire. Si rivela ben presto quello che sembra: una mosca invischiata nella colla. Non supera l’esame, non è in grado di vivere un’avventura erotica senza abbandonarsi all’indecenza, liricizza le proprie ossessioni libertine, o almeno ci prova, costruendo liriche che coprono un linguaggio impudico.
L’unico modo per risolvere la situazione è andare fino in fondo:
come obbedendo a un ordine proferito da lontano, si sente in dovere di piantare anzitutto un gran casino.
Di tutt’altro genere è il rapporto erotico e turbolento di Immacolata, rifiutata da Berck, con il suo amante di sempre:
Tu sei un non-occhio, un non-orecchio, una non-faccia. La mia superbia indifferenza è un mantello che mi consente di muovermi davanti a te assolutamente libera e con assoluta impudicizia.
Si tratta di un’altra amicizia erotica che, sebbene retta da alterchi e insulti, segue un rito destinato a perpetrarsi, a differenze delle altre, nel tempo, fino all’eternità. Non sembra una storia senza domani.