Recensione. LA PRIMA VOLTA (DI MIA FIGLIA). Cinema, anzi teatro boulevardier alla romana

Creato il 21 marzo 2015 da Luigilocatelli

La prima volta (di mia figlia), regia di Riccardo Rossi. Con Riccardo Rossi, Anna Foglietta, Fabrizia Sacchi, Stefano Fresi, Benedetta Gargari. Uscito giovedì 19 marzo.
Una commedia vetusta, cui però bisogna riconoscere un certo garbo. Siamo a Roma, in una Roma medioborghese senza lazzi da suburra. Un padre entra in crisi quando scopre, o crede di scoprire, che la figlia quindicenne sta per perdere la verginità. Ogni tanto si sorride, un po’ ci si annoia. Un cinema inattuale ma educato, e con un sua dignità artigianale. Voto tra il 5 e il 6
È cinema (insomma), ma sembra teatro. Prevalenza della parola, girato tutto o quasi in interni, e in gran parte in un interno solo, un ristorante fighetto con gli attori attovagliati a palare palare parlare. Le uniche escursioni fuori dalle mura sono dei flashbacchini ora dell’uno ora dell’altro personaggio, che su un palcoscenico verrebbero comunque risolti senza gran problemi. E il sapore, un po’ muffo, di un teatro un filo fuori corso, démodé, quello che in Francia chiamano boulevardier e in Italia chissà, teatro rivolto a un pubblico attempato e perbene, diciamo così signorile, che non cerca scosse e provocazioni e turbamenti, e vuole svagarsi con le eterne storie di famiglie e di equivoci, e con un po’ di erotismo addomesticato sparso qua e là in dosi omeopatiche. Quelle cose che a Milano si fanno, se ancora si fanno, in teatri come il San Babila e il Manzoni, dove si va in cravatta (lui) e abito da sera (lei). Solo che questo è un film che nasce da una sceneggiatura originale, non da una commedia precedentemente portata in tournée da Riccardo Rossi (e però, azzardo, cosa da palcoscenico potrebbe diventare). L’effetto per chi sta in platea è di un certo straniamento, per nulla brechtiano però, piuttosto nel senso di stupore di fronte a un cineoggetto abbastanza alieno rispetto alla media. Una commedia sì, ambientata a Roma sì, ma per niente popolar-plebea, se mai frutto e specchio di una Roma medioborghese poco indagata dal cinema, una Roma che ci tiene ai modi educati e non sbraca nei lazzi da suburra. Cinema, o teatro, vetusto e polveroso, questo che Riccardo Rossi mette in scena nel plurimo ruolo di regista, protagonista e cosceneggiatore, cui però vanno riconosciuti un certo garbo e un buon mestiere. Niente di che, ma almeno siamo lontani dall’insostenibile rozzezza e sciatteria di tanti nostri cineprodotti. Questo è un film piccolo piccolo, in evidenza girato con un budget limitato, e però sant’Iddio dignitoso, messo su da gente che sa quel che fa, e come farlo. Certo, i critici giovani e meno giovani stroncheranno e spernacchieranno, anche se per motivi opposti – questo è il tipo di (non) cinema che i recensori amano odiare e maltrattare – ma se si mettono da parte i pregiudizi bisognerà pur ammettere che La prima volta (di mia figlia) a modo suo funziona. La storia sta tutta o quasi nel titolo. Un medico romano di medio livello (Riccardo Rossi, ovvio) – moglie stronza separata, una figlia di quindici anni – conduce un’esistenza media e metodica, abitudini consolidate, nessun strappo alla routine, una compulsiva tendenza all’ordine e al controllo. Battibecchi con la collega psicologa (Anna Foglietta) con cui divide lo studio medico quando, una volta al mese, fa assistenza volontaria in un centro anziani. Un giorno apre il diario della figlia, che è una cosa che non si fa, e che dovrebbe essere proibita per legge in una sceneggiatura ma tant’è, e da indizi secondo lui evidenti si convince che la ragazza sta per avere il suo primo rapporto sessuale. E, come capita ormai solo nelle commedie piccolissimo-borghesi e italiane come questa, il babbo entra in fibrillazione, ‘ma è ancora una bambina, ma non è possibile, e chi sarà il mascalzone?’, e via paranoicizzando. Aggiungiamoci il terrore delle malattie sessualmente trasmissibili, e il quadre è completo. Chiaro che il problema è lui, il papà fobico e maniacal-ossessivo e prigioniero dei suoi fantasmi, ma qui si procede come se tutto fosse bloccato agli anni Cinquanta del secolo scorso, o a tempi pre-freudiani (e però questa inattualità ha il suo perché, suvvia). il piano non genialissimo del padre è di invitare la figlia a una cena al ristorante con un’amica di lui, ginecologa al consultorio e dunque versata nel tema perdita della verginità e relativi dintorni. Senza darlo troppo a vedere, si indirizzerà la conversazione sulla faccenda, onde stanare la figliola, darle consigli, istruirla, cercare di dissuaderla se è il caso. Si aggregheranno, non previsti, il marito dell’amica e la collega psicologa di lui. Quel che segue è assai immaginabile, un flusso di parole interrotte solo dai flasback della copoia e del protagonista che rievocano la loro prima volta. Che dire? Che almeno non c’è sgangherataggine, che la regia di Riccardo Rossi è precisina, mai tirata via, anche se senza voli. Gli attori fan la loro parte, con Stefano Fresi e Anna Foglietta in evidenza. E però, come facciamo a credere che Foglietta ha una passione per Riccardo Rossi, se la chemistry tra i due latita vistosamente?


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