Recensione: La ragazza nella nebbia, di Donato Carrisi

Creato il 28 novembre 2015 da Mik_94
Il peccato più sciocco del diavolo è la vanità.
Titolo: La ragazza nella nebbia Autore: Donato Carrisi Editore: Longanesi Prezzo: € 18,60 Numero di pagine: 373 Sinossi: La notte in cui tutto cambia per sempre è una notte di ghiaccio e nebbia ad Avechot, un paese rintanato in una valle profonda fra le ombre delle Alpi. Forse è stata proprio colpa della nebbia se l'auto dell'agente speciale Vogel è finita in un fosso. Un banale incidente. Vogel è illeso, ma sotto shock. Non ricorda perché è lì e come ci è arrivato. Eppure una cosa è certa: l'agente speciale Vogel dovrebbe trovarsi da tutt'altra parte, lontano da Avechot. Infatti, sono ormai passati due mesi da quando una ragazzina del paese è scomparsa nella nebbia. Due mesi da quando Vogel si è occupato di quello che, da semplice caso di allontanamento volontario, si è trasformato prima in un caso di rapimento e, da lì, in un colossale caso mediatico. Perché è questa la specialità di Vogel. Non gli interessa nulla del dna, non sa che farsene dei rilevamenti della scientifica, però in una cosa è insuperabile: manovrare i media. Attirare le telecamere, conquistare le prime pagine. Ottenere sempre più fondi per l'indagine grazie all'attenzione e alle pressioni del "pubblico a casa". Santificare la vittima e, alla fine, scovare il mostro e sbatterlo in galera. Questo è il suo gioco, e questa è la sua "firma". Perché ci vuole uno come lui, privo di scrupoli, per far sì che un crimine riceva ciò che gli spetta: non tanto una soluzione, quanto un'audience. Sono passati due mesi da tutto questo, e l'agente speciale Vogel dovrebbe essere lontano, ormai, da quelle montagne inospitali. Ma allora, cosa ci fa ancora lì?                                          La recensione Faceva freddo come adesso, più di adesso, e il bavero del giaccone non bastava a ripararmi dal vento. Dopo anni ci si abitua – all'umido, alle nuvole pesanti – ma la pioggia, in quel weekend a un passo dalle feste, si infilava con impegno negli occhi, sotto la pelle. Spaccava le ossa, una ad una. Fulmini e saette, percussioni ritmiche e riflettori accesi, per uno scenario degno di un noir da manuale. Ogni storia da brivido trova il suo inizio in una notte buia e tempestosa. Ogni presentazione di Donato Carrisi meriterebbe perciò un cielo a tema. Una nerissima visione da fine del mondo. Ricordo i brividi di febbre passeggera del ritorno a casa, in autobus, e il piacere di un incontro sorprendente – se avete letto il mio post, all'epoca, è un po' come se ci foste stati anche voi, con me –, insieme alla sensazione che il cattivo tempo avesse disturbato, stranamente, anche l'autore: uno che, per lavoro, gioca con le ombre, ma a cui poi manca il sole pugliese; uno che maneggia argomenti grevi, sempre con i guanti bianchi, e che in privato – o davanti al suo pubblico di lettori affezionati – si scopre leggerissimo. Donato Carrisi, di persona, è meno tenebroso che in foto: alto come me, più o meno, e dal sorriso facile. Soprattutto, non si lascia scoraggiare dalle bizze dei microfoni: le interferenze tecniche o la presenza, in libreria, di un pubblico che chiacchiera e gli scatta foto non lo turbano. Ci sono scrittori schivi e scrittori, invece, che sanno modulare frasi significative e creare immagini indelebili anche così, all'impronta. Donato Carrisi lavora con le parole, che siano d'inchiostro o di fiato poco importa. E con quelle stesse parole, in unione a innate capacità di uomo di spettacolo, aveva catturato il pubblico – perfino mio fratello, all'inizio preso dai suo acquisti – in un'ora in cui si parlava del più e del meno, del processo creativo, dei gialli di cronaca. “Ricordate tutti la Strage di Erba, i coniugi Romano”, aveva domandato, “ma scommetto che nessuno terrà più a mente un particolare. Il bambino ucciso, come si chiamava?”. I nomi – arabi, perlopiù, giacché ci si ricordava tutti un bimbo dai profondi occhi scuri e il suo sospetto padre tunisino – volavano come i numeri a tombola.  “Youssef”, aveva rivelato infine. L'incontro si era concluso con una riflessione dolente – il ricordare i colpevoli, ma non le vittime quanto ci rende complici? - e un'anticipazione che non avevo saputo cogliere. A un anno di distanza, infatti, Donato Carrisi torna con La ragazza nella nebbia. Storia nuova con un vecchio interrogativo che si risveglia, all'ora delle streghe. E se mettersi sulle tracce di una ragazza scomparsa avesse minore priorità rispetto all'altro tarlo che logora: assicurare alla giustizia – e alle brame delle telecamere – un mostro? E se una storia, in realtà, la scrivessero i cattivi, con atti esecrabili che sovvertono gli equilibri, e non i buoni, povera gente dall'esistenza tranquilla? Abbiamo visitato, con lui a farci da Cicerone, un girone infernale senza confini e la Città Eterna.  Abbiamo avuto professionisti dalle abilità fuori dalla norma – l'instancabile Mila, il penitenziere Marcus –, che sul male hanno formulato ipotesi schiaccianti; organizzato cacce. La bruma che si dirada a valle ci restituisce la foto di un paesino all'ombra delle Alpi. Avechot è un presepe immaginario su cui il Padreterno ha fatto cadere la neve, a fiocchi grossi, e un'inaspettata fortuna: si è fedeli al denaro e alla religione, da quando le ricchezze del sottosuolo hanno allontanato i turisti e i cantieri a cielo aperto hanno sottratto spazio vitale agli splendori naturali. Sembra Cogne. Quando il Natale chiederebbe a tutti di essere più buoni, quando il bianco è troppo bianco per il nero della cronaca, la sedicenne Anna Lou scompare nel nulla: ha un diario segreto in cui scrive di gatti e perline, una famiglia profondamente religiosa, i capelli rossi. Si parte dalla fine – il protagonista, confuso, è sotto interrogatorio – ed è il suo racconto al Dottor Flores, in un magistrale alternarsi di punti di vista e piani temporali, che scioglie, poi, il mistero de La ragazza nella nebbia. Sul romanzo, da parte mia, pesavano alte aspettative: superfluo dirlo. Con Carrisi – uno di quegli autori di cui non mi stanco – cerco la lettura del thriller dell'anno, non di un thriller, e, prima o poi, lecito incappare non in una delusione, ma in un romanzo vagamente sottotono. Anche se dispiace ammetterlo, abituati al meglio sin da un esordio indimenticabile. Lo stile resta riconoscibile, la struttura cambia. Si assottiglia, si semplifica: non ha, questa volta, tanti fuochi. Un unico perno – Chi ha ucciso Anna Lou? come Chi ha ucciso Laura Palmer? - e il confrontarsi, dopo intrecci machiavellici e bambole russe di tranelli, con il giallo tradizionale. Sembrerebbe prendere fiato tra due serie – e, dunque, da quei polizieschi tridimensionali, difficilissimi, ad incastro.  Un gioco da ragazzi. Invece, ragionandoci, si nota che è meno semplice di quanto appaia: stupire con poco, anziché intrattenere con tanto. Carrisi stupisce e intrattiene, non dimentica le regole base del suo straordinario successo, ma – fino alla fine, anche davanti alla sue quasi quattrocento pagine – ho conservato l'impressione di un racconto lungo, di un esercizio ben portato a termine. Ho fatto le ore piccole per finirlo – con, fuori, le stesse atmosfere dello scorso anno e, tra le pagine, lo stesso Carrisi padrone – ma mi è mancato il colpo di scena eclatante, il brivido, in un ultimo capitolo frettoloso che, per la prima volta, non mi ha lasciato a bocca aperta. Se le risposte al caso mi sono sembrate modeste, La ragazza nella nebbia è interessante, molto, per le riflessioni sulla morte ai tempi dei mass media. I misteri dello storico Twin Peaks, gli uomini qualsiasi del Sospetto di Vinterberg, vessati dalle occhiate di fuoco del vicino di casa, e un quid – in questo caso, il sezionare la materia fragile di cui sono fatti i talk show, penna e telecomando alla mano – che è inequivocabilmente suo. La trama si fa circostritta, ma il male, chiodo fisso, rompe di nuovo gli argini. E l'agente speciale Vogel, che eppure dovrebbe combatterlo, lo coltiva con dedizione sotto le luci della ribalta. Non integerrimo uomo d'azione, ma mestierante dotato di sangue freddo e tratti telegenici, cercherà di offrire alla telecamera un colpevole – un mite professore di lettere con la sfortunata di non avere un alibi abbastanza solido – e il suo profilo migliore. Non cerca prove, ma indizi, con l'aiuto del giovane Borghi, di una giornalista d'assalto che gli ha rovinato la reputazione e di una giacca di cachemire – sotto: camicia inamidata, gemelli d'oro, cravatta di seta – per combattere il clima rigido, e nascondere le macchie di sangue altrui. Qualche sbavatura c'è – i colori del giallo, a volte, diluiti nel mare magnum del realismo – ma tanto si salva dalla nebbia della mia memoria. I lumi e i peluche. Un regalo mai scartato, con ancora il fiocco in cima, e un albero puntato verso la finestra, come un faro per i naviganti – e in città così piccole è assurdamente facile smarrirsi. I reporter, come gli avvoltoi, che avvertono l'odore dello scoop, pare ricordi quello rugginoso del sangue, e iniziano a volteggiare su Avechot, in cerchi implacabili e perfetti. Non ci si prende la briga di cercare la vittima, data per spacciata sin dalle prime ore, ma il suo assassino. Per santificare Anna Lou e dare a quel borgo spuntato da una fiaba, all'improvviso scena del crimine, la sua pace. La stampa adora i finali lieti, per quanto possibile, e l'illusione dei mostri. Il mio voto: ★★★ Il mio consiglio musicale: Negramaro – Io non lascio traccia

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