Una nave in rotta verso l’ignoto, una bagaglio costituito da atroci ricordi, smarrimento e una vago senso di libertà. È con questa immagine, a tratti malinconica e un po’ surreale che siamo traghettati sulla riva del silenzio. Yohan, giovane nordcoreano, non ha mai visto l’Oceano né la terra verso cui è diretto. Prigioniero di guerra, ha trascorso gli ultimi tempi recluso in un campo militare. La possibilità di cominciare una nuova vita in Brasile a conflitto finito è una sorta di premio che gli Americani gli accordano per essersi reso utile e per essersi distinto durante la prigionia. Un posto su una nave mercantile per raggiungere la meta e una lettera di presentazione per poter essere assunto presso la bottega di una sarto giapponese: questi gli strumenti che gli vengono offerti per voltare pagina e ricominciare. Rimasto solo e senza più una casa a cui fare ritorno, Yohan accetta preparandosi così a compiere un vero salto nel buio. D’improvviso si ritrova in un paese straniero tra gente che non conosce. Ad accoglierlo nella sua nuova casa è soprattutto il silenzio; silenzio dettato da problemi linguistici ma che ha radici anche più profonde. Yohan non ha parole per gli orrori di cui è stato protagonista e Kiyoshi, il sarto che lo accoglie nella sua bottega e che gli offre un tetto, è uno straniero in terra straniera come lui. Solo e senza più radici, il giapponese ha un passato non meno drammatico alle spalle, un passato che non si dimentica ma che non vuole (o non può) essere raccontato. L’assenza di comunicazione verbale, tuttavia, non corrisponde a una chiusura totale. I due uomini, pian piano, troveranno comunque un loro modo per interagire e per intendersi, stabilendo un legame. Gli sguardi, i gesti quotidiani, la condivisione degli spazi e, finanche del tempo libero speso sul tetto a rimirare le stelle, divengono un codice muto in grado di veicolare i sentimenti. Sono due solitudini che si incontrano quelle di Yohan e Kiyoshi e che nel congiungesi riescono a comprenderne anche altre, come quella di Bia e Santi, i due mendicanti bambini, che spesso gravitano intorno alla bottega. Emblema di un’infanzia negata, i piccoli vagabondi finiscono per ritagliarsi un angolino nella vita dei due protagonisti, colorandola, seppur inconsapevolmente, con la magia tipica di un’età che, nonostante tutto, riesce a inseguire i sogni. È un romanzo molto particolare La riva del silenzio, affronta tematiche dure, drammatiche come la guerra, il disagio della solitudine, la difficoltà di essere figli di nessuno in un paese povero ma lo fa rinunciando a qualsiasi ovvietà e con sorprendente delicatezza. Poche immagini abbozzate solo nei tratti essenziali, riescono a rendere perfettamente l’orrore della prigionia, il dramma dei trascorsi di Kiyoshi, quello di Bia e Santi ma anche e soprattutto la profondità dei sentimenti. Yohan che accompagna l’amico rimasto cieco in giro per il campo perché impari a orientarsi da solo; Santi che tende le mani a tutti i passanti chiedendo se fra loro c’è la sua mamma o il suo papà; Bia che si riempie gli occhi di meraviglia osservando un giocoliere sulla spiaggia; Kiyoshi che si alza nel cuore della notte per confezionare con mani tremanti un cappottino da bimbo. Sono solo alcuni dei fotogrammi che l’autore lascia scorrere sulla pagina affinché il lettore scorga l’immensità che può celarsi dietro le parole non dette. Attraverso una scrittura essenziale e fortemente evocativa, Paul Yoon ci porge una storia dai contenuti forti ma che si veste di una leggerezza quasi da fiaba − complici anche le atmosfere surreali di cui si ammanta. Leggendo si ha l’impressione di toccare il silenzio che aleggia e si estende tra le righe occupando spazio e riempiendosi di significati. Lì dove mancano le parole subentrano i ricordi, gli sguardi, i piccoli gesti capaci, se non di riempire i vuoti, di accorciare le distanze. Non c’è vera consolazione in questo, il dolore subito non si dimentica e la guerra è una ferita che non si rimargina ma a prevalere a fine lettura è il senso di speranza dettato dal coraggio di ricominciare e di continuare a vivere che anima il protagonista passando anche attraverso la riscoperta della magia delle piccole cose.
Una nave in rotta verso l’ignoto, una bagaglio costituito da atroci ricordi, smarrimento e una vago senso di libertà. È con questa immagine, a tratti malinconica e un po’ surreale che siamo traghettati sulla riva del silenzio. Yohan, giovane nordcoreano, non ha mai visto l’Oceano né la terra verso cui è diretto. Prigioniero di guerra, ha trascorso gli ultimi tempi recluso in un campo militare. La possibilità di cominciare una nuova vita in Brasile a conflitto finito è una sorta di premio che gli Americani gli accordano per essersi reso utile e per essersi distinto durante la prigionia. Un posto su una nave mercantile per raggiungere la meta e una lettera di presentazione per poter essere assunto presso la bottega di una sarto giapponese: questi gli strumenti che gli vengono offerti per voltare pagina e ricominciare. Rimasto solo e senza più una casa a cui fare ritorno, Yohan accetta preparandosi così a compiere un vero salto nel buio. D’improvviso si ritrova in un paese straniero tra gente che non conosce. Ad accoglierlo nella sua nuova casa è soprattutto il silenzio; silenzio dettato da problemi linguistici ma che ha radici anche più profonde. Yohan non ha parole per gli orrori di cui è stato protagonista e Kiyoshi, il sarto che lo accoglie nella sua bottega e che gli offre un tetto, è uno straniero in terra straniera come lui. Solo e senza più radici, il giapponese ha un passato non meno drammatico alle spalle, un passato che non si dimentica ma che non vuole (o non può) essere raccontato. L’assenza di comunicazione verbale, tuttavia, non corrisponde a una chiusura totale. I due uomini, pian piano, troveranno comunque un loro modo per interagire e per intendersi, stabilendo un legame. Gli sguardi, i gesti quotidiani, la condivisione degli spazi e, finanche del tempo libero speso sul tetto a rimirare le stelle, divengono un codice muto in grado di veicolare i sentimenti. Sono due solitudini che si incontrano quelle di Yohan e Kiyoshi e che nel congiungesi riescono a comprenderne anche altre, come quella di Bia e Santi, i due mendicanti bambini, che spesso gravitano intorno alla bottega. Emblema di un’infanzia negata, i piccoli vagabondi finiscono per ritagliarsi un angolino nella vita dei due protagonisti, colorandola, seppur inconsapevolmente, con la magia tipica di un’età che, nonostante tutto, riesce a inseguire i sogni. È un romanzo molto particolare La riva del silenzio, affronta tematiche dure, drammatiche come la guerra, il disagio della solitudine, la difficoltà di essere figli di nessuno in un paese povero ma lo fa rinunciando a qualsiasi ovvietà e con sorprendente delicatezza. Poche immagini abbozzate solo nei tratti essenziali, riescono a rendere perfettamente l’orrore della prigionia, il dramma dei trascorsi di Kiyoshi, quello di Bia e Santi ma anche e soprattutto la profondità dei sentimenti. Yohan che accompagna l’amico rimasto cieco in giro per il campo perché impari a orientarsi da solo; Santi che tende le mani a tutti i passanti chiedendo se fra loro c’è la sua mamma o il suo papà; Bia che si riempie gli occhi di meraviglia osservando un giocoliere sulla spiaggia; Kiyoshi che si alza nel cuore della notte per confezionare con mani tremanti un cappottino da bimbo. Sono solo alcuni dei fotogrammi che l’autore lascia scorrere sulla pagina affinché il lettore scorga l’immensità che può celarsi dietro le parole non dette. Attraverso una scrittura essenziale e fortemente evocativa, Paul Yoon ci porge una storia dai contenuti forti ma che si veste di una leggerezza quasi da fiaba − complici anche le atmosfere surreali di cui si ammanta. Leggendo si ha l’impressione di toccare il silenzio che aleggia e si estende tra le righe occupando spazio e riempiendosi di significati. Lì dove mancano le parole subentrano i ricordi, gli sguardi, i piccoli gesti capaci, se non di riempire i vuoti, di accorciare le distanze. Non c’è vera consolazione in questo, il dolore subito non si dimentica e la guerra è una ferita che non si rimargina ma a prevalere a fine lettura è il senso di speranza dettato dal coraggio di ricominciare e di continuare a vivere che anima il protagonista passando anche attraverso la riscoperta della magia delle piccole cose.
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