Pubblicato da Germana Maciocci
Cari lettori,
cimentarsi nella lettura di un classico della letteratura al fine di scriverne la recensione non è impresa facile. Non solo l'importanza del testo e l'ombra dell'autore, ma anche quelle di migliaia di critici e relativi saggi che ci hanno potrebbero intimidire il lettore. Quando si tratta di "mostri sacri" come Virginia Woolf, poi, l'unica via secondo il mio umile parere è quello di affrontare la piacevole impresa con spirito libro e occhi "nuovi": leggere un opera come se non ne avessimo mai sentito parlare, come se fossimo i primi a scorrerne le pagine. E condividere con gli amici del blog le proprie impressioni e le vibrazioni provocate dalle parole dell'autrice, con la consapevolezza che, in alcuni casi, un minimo di conoscenza di quello che voleva trasmetterci attraverso il suo romanzo. La signora Dalloway, appena pubblicato dalla Marsilio Editore in un'edizione testo a fronte tradotta e curata da Marisa Sestito include nella prefazione tratti di diari e lettere della Woolf e presenta una traduzione scorrevole e coerente, offrendo al lettore tutti gli strumenti per una comprensione del testo e una lettura estremamente piacevoli. Enjoy!
RECENSIONE
Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. (1925, Eugenio Montale)
Clarissa Dalloway, signora londinese protagonista del libro, una mattina di giugno del 1923 annuncia alla sua cameriera Lucy che si occuperà di acquistare personalmente i fiori per la festa che ha organizzato in casa sua per quella stessa sera. L'aria fresca e frizzante che pervade la sua città quella mattina le ha ispirato, fin da quand'era giovane, in altri luoghi e altri ambienti, una sensazione di leggerezza e voglia di vivere: la prima di molteplici immagini "mentali" descritte in terza persona che ─ ricorreranno nel corso del romanzo, del periodo passato a Bourton quando era ragazza ─ la vede spalancare la finestra del terrazzo della sua casa; mentre il suo amico e innamorato Peter Walsh la aspetta fuori, e lei, diciottenne e fresca come l'aria che le accarezza la pelle, si offre con leggerezza alla nuova giornata. E tale leggerezza sembra accompagnarla tutt'ora, mentre, cinquantaduenne, signora dell'alta borghesia della capitale inglese, si avvia verso Bond Street per acquistare i suoi fiori, Ma come nella vita reale, anche per questo personaggio creato dalla penna di Virginia Woolf vale il detto che non tutto è come sembra. Mentre Londra e i suoi abitanti sembrano pulsare di vita e positività; mentre l'eco della Grande Guerra sembra ormai un incubo lontano, e che niente di brutto possa accadere in una giornata così radiosa, l'autrice inizia a scavare quelli che lei amava chiamare “tunnel” intorno ai suoi protagonisti, al fine di svelare al lettore i recessi più reconditi delle loro anime. La spensieratezza di Clarissa si rivela ben presto più una ricerca ostentata che una realtà; un desiderio velato di malinconia verso gli anni della sua gioventù, quando tutto il suo mondo sembrava costituito da gioia e scoperte, amicizie e piani per il futuro. Riflettendo bene però, lei stessa si rende conto che l'illusione era durata ben poco; che già a quei tempi piccoli e grandi eventi le avevano fatto capire che la vita era “altro” ─ il suo rifiuto di sposare Peter, per quanto lo amasse, per il timore che un uomo dal suo carattere così coinvolgente e indipendente avrebbe potuto minare il suo desiderio di libertà, anche in un rapporto affettivo; il suo amore per l'amica Sally, dalla quale non avrebbe mai voluto separarsi, un'attrazione che trascendeva il semplice rapporto affettivo che Clarissa non aveva avuto la forza e il coraggio di affrontare, lasciando dei sospesi per lei ancora inconfessabili; la paura della morte, che la accompagna in ogni istante, in modo sottile, inconscio, strisciante, soprattutto dopo la malattia che l'ha recentemente colpita e alla quale si fa riferimento nel corso di tutta la sua storia, senza però mai specificare di quale malattia si sia trattata, quanto tempo sia durata, un espediente della Woolf proprio per far avvertire a chi legge il disagio emotivo di Clarissa nei confronti di tale paura.
"Era insoddisfaceNte, convenivano, sapere così poco degli altri. Ma lei, seduta sull'omnibus che risaliva Shaftesbury Avenue, disse di sentirsi in ogni luogo; non "qui, qui, qui", picchiettando sullo schienale; ma dovunque... Così per conoscere lei, o chiunque, bisognava scovare la gente che li completava; perfino i luoghi... Ne conseguiva una teoria trascendentale che, visto il suo orrore della morte, le permetteva di credere, o dire di credere (scettica com'era) che, data la transitorietà del nostro apparire, la parte di noi che appare, se paragonata all'altra parte di noi, quella invisibile che si estende in ogni dove, l'invisibile poteva sopravvivere, venir ritrovato in una qualche forma congiunto a questa o quella persona, o perfino aleggiante incerti luoghi, dopo la morte. Forse ─ forse."
Tutto questo e molto altro si nasconde dietro i modi di aggraziata sicurezza di Clarissa; in un insieme di piccole battaglie con se stessa che costituiscono un incessante guerra, sotterranea ma senza fine, nell'animo della donna. Septimus Warren Smith, l'altra “voce” principale del romanzo, la guerra l'ha combattuta sul serio, la Prima Guerra Mondiale. Il giovane uomo, sposato con l'italiana Lucrezia, ha visto morire il suo amico Evans e, dopo un apparente indifferenza iniziale, dopo lungo tempo ha iniziato a soffrire di depressione e allucinazioni. L'amicizia sembra essere, in effetti, più dell'amore uno dei temi principali del libro, come sentimento duraturo, inespugnabile, che resiste oltre la morte. La moglie, chiaramente presa da forte preoccupazione e ansia dalla difficile situazione che vive Septimus, cerca di affrontare razionalmente le paure del marito, portandolo da specialisti, alla ricerca di una possibile cura. Septimus ha infatti chiaramente dichiarato le sue intenzioni: vuole uccidersi, perché gli esseri umani sono malvagi. In realtà, quello a cui non riesce a rassegnarsi Septimus è la morte di nobili ideali come la fratellanza tra gli uomini; la speranza di rendere il mondo un posto migliore combattendo i simboli del male, illusoriamente rappresentato dal nemico durante la Grande Guerra: nel momento in cui si era arruolato aveva pensato che proteggere la propria patria, rappresentata nel suo cuore dalla fidanzata di allora Isabel, e dall'arte di Shakespeare, fosse la cosa giusta da fare. La morte di Evans poi lo aveva cambiato, inevitabilmente e irrevocabilmente, con una forza talmente sovrastante, da non farsi avvertire subito.
"Sicché non c'erano scuse; non aveva niente di niente, tranne il peccato per cui la natura umana lo aveva condannato a morte; quello di non sentire. Era rimasto indifferente quando Evans era stato ucciso; la cosa più brutta era stata quella; ma tutti gli altri delitti sollevavano la testa e agitavano le dita nelle prime ore del mattino, canzonando e schernendo da sopra le colonnine del letto il corpo prostrato che giaceva consapevole della sua degradazione..."
Septimus avverte la bellezza della vita che pervade tutte le cose, eppure il vuoto che lo sta vincendo ormai ─ questo contrasto tra pienezza di sensazioni e sentimenti e completa, devastante insensibilità ─ non è altro che uno strumento automatico di protezione, perché l'uomo sente, eccome, e più di coloro che lo circondano, ogni sfumatura, ogni vibrazione. Tale dissociazione mentale lo porta ad avere frequenti allucinazioni, che, insieme allo schermo mentale dell'indifferenza, lo portano in continuazione verso pensieri di annullamento e di morte. Septimus si sente colpevole: colpevole di essere sopravvissuto, di aver sposato Rezia nonostante non la amasse. Gli inglesi hanno vinto la Guerra, ma sembrano non rendersi conto del conto che hanno dovuto pagare per quella vittoria. Per Septimus, ormai sentire equivale ormai a soffrire: l'unica soluzione è porre fine alle pene terrene, e togliersi la vita.
"Lei si era salvata. Ma quel giovane si era ucciso."
I due eventi più traumatici del Novecento, dai quali il volto della Storia esce mutato per sempre, incorniciano il tempo della scrittura di Virginia Woolf (1882-1941). La Grande Guerra ne segna l’esordio modernista in La stanza di Jacob e attraversa mirabilmente La signora Dalloway; la minaccia della seconda Guerra Mondiale occupa, possente e terribile, Le tre ghinee, e fa sentire la sua eco in Tra un atto e l’altro, la sua ultima opera. In mezzo, Al faro, Orlando, Le onde, Gli anni: alcuni degli splendidi testi in cui l’artista assolve al compito che si è data in anni lontani, «Voglio scrivere di vita e di morte, di sanità e di insanità», trasformando per sempre il volto del romanzo.