Il film è nella sua prima metà la cronaca di una caccia, con Stock nella parte del predatore e Dean in quello della preda, anche se la preda ha parecchie risorse ed è capace di rovesciare la partita con mosse imprevedibili. Succederà che l’attore ancora in cerca di fama inviterà il professionista della fotocamera a seguirlo in un suo ritorno a casa dagli zii che l’hanno allevato, là in una farm nell’Indiana, dove accetterà di farsi riprendere. Saranno scatti di un Dean intimo e lontano da ogni fasto hollywoodiano destinati a diventare famosi, integrati e arricchiti successivamente da quelli che Stock farà all’attore a New York, compresa l’immagine epocale di un Dean ripreso di spalle in una caliginosa Times Square. Il servizio verrà pubblicato da Life, ma in una collocazione non così privilegiata, ben oltre la pagina 100, mentre la cover sarà dedicata a tutt’altro. Oggi sappiamo che quel tormentato shooting ha prodotto foto tra le più famose del secolo scorso, e contribuito fortemente all’edificazione del mito dell’attore-ribelle. Life (il film) ne è la ricostruzione, presentando, oltre ai momenti in cui fotografo e fotografato si incontrano, confliggono, interagiscono, collaborano, anche spezzoni del privato di entrambi. Dean innamorato di Anna Maria Pierangeli – a Hollywood solo Pier Angeli – al punto da chiederle di sposarlo. E loro due sul red carpet alla prima di un film, con i flash che son tutti per lei, la vera diva della coppia (Il calice d’argento l’aveva portata in vetta), mentre a lui, sconosciuto, tocca la parte dell’accompagnatore, del ‘boyfriend di’. Dean che apprende solo in conferenza stampa da un giornalista che Pier Angeli si è fidanzato il giorno prima con Vic Damone. Dean che racconta a Stock della sua disastrosa infanzia, mollato dai genitori presso gli zii farmers, un abbandono che l’ha segnato. Dean che gioca davvero la parte del ribelle senza causa, suscitando le perplessità e anche la rabbia del produttore Jack Warner (grande cameo di Ben Kingsley, che rifà perfettament l’accento yiddish del tycoon), prima ancora di esserlo nel film di Ray. In parallelo scopriamo i guai privati di Stock, il suo bisogno di affermarsi anche per far fronte al mantenimento del figlio, i continui conflitti con la ex moglie (la più fastidiosa del cinema recente insieme a quella di American Sniper: ma lasciateli un po’ in pace ‘sti uomini, smettetela di tormentarli, che stan fotografando James Dean – in Life – e combattendo una guerra ad alto rischio in Iraq – in American Sniper). Il regista Anton Corbijn, mica per niente nato fotografo, anzi fotografo lo è ancora, non ce la fa però ad andare oltre un’impaginazione corretta, finendo con il cadere nella trappola di una ricostruzione feticistica, più che filologica, di quegli scatti che-hanno-fatto-la-storia-della-fotografia. Si resta tutto sommato all’interno del mito James Dean senza mai davverlo discuterlo o almeno riattraversarlo, mostrando un rispetto cauteloso forse dettato dalla necessità, e che sconfina nella reverenza. Il guaio vero di Life è che non ce la fa mai a essere davvero interessante. Non ci dice molto di più sull’attore di quanto già non sapessimo, rappresentandone il (presunto) maledettismo e la (presunta) irriducibilità al sistema Hollywood in modi ovattati e rimanendo parecchio all’esterno del personaggio. Però alla Berlinale, dove l’ho visto lo scorso febbraio, il film è molto piaciuto a pubblico e stampa, soprattutto italiana, stiamo a vedere se il successo si confermerà adesso che è nelle nostre sale. Gli interpreti: la partita, nei biopic come questo, si gioca in gran parte sulla prestazione degli attori. Dan DeHaan era sulla carta la migliore scelta possibile per James Dean. Buona somiglianza fisica in partenza, accentuata nel film da un lavoro meticoloso di makeup e sul corpo. L’impressione però è che DeHaan, nonostante l’impegno, non ce la faccia a trasmettere quel che fece di James Dean l’icona James Dean, la sua essenza divistica, stellare. Meglio Robert Pattinson che del suo Dennis Strock intercetta bene anche la fragilità, oltre che l’ansiosa voglia di riuscita professionale. Tant’è che, alla conta finale, risulta essere lui il carattere più interessante di un film che immagino ambirebbe a raccontarci la nascita, anzi l’incubazione di un mito, ma che manca l’obiettivo. Ci sarebbe voluto un approccio meno algido, meno formalistico e convenzionale, invece Life resta un film fotografico, ovvero eminentemente visuale, eminentemente di sguardo e di superficie, su un leggendario servizio fotografico. Si osa poca, quasi niente, e anche la parte che sarebbe potuta diventare la più ricca e corposa drammaturgicamente, quella del rapporto tra Stock e Dean, resta oscura e inesplorata. Ebbene sì, c’è anche Alessandra Mastronardi, ed è una credibile Anna Maria Pierangeli.
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