Macbeth, un film di Justin Kurzel. Con Michael Fassbender, Marion Cotillard, David Thewlis, Paddy Considine, Sean Harris, John Reynor. Al cinema da martedì 5 gennaio 2016.
Una trama di delitti per conquistare il trono. La tragedia di Shakespeare (già portata in cinema da Orson Welles, Kurosawa e Polanski) diventa, nelle mani dell’australiano Justin Kurzel, un lungo incubo, un racconto plumbeo e dark, una ballata psicopatica a due. Ottima riuscita. Eccellenti sia Fassbender che la Cotillard. Voto 7+
La più nuova delle cineversioni di una delle più cupe e rosso-sangue tragedie shakesperiane, dopo quelle di Orson Welles, Akira Kuroswa e Roman Polanski. E degnissima versione, va detto. Selvaggia, barbarica, corrusca, affondata nel primitivismo delle Highlands scozzesi e in una notte quasi continua. Con due interpreti che sembran nati apposta per i loro personaggi, un Michael Fassbender torvo e rapace e insieme roso dentro e alterato (“ci sono scorpioni nella mia mente”) e una Marion Cotillard che va per sottrazione, cui però basta uno sguardo per suggerire il lato serpentesco e luciferino di Lady Macbeth. Eppure quando lo scorso maggio questo Macbeth è stato proiettato alla stampa a Cannes, dov’era in concorso, insieme ai molti applausi si sono anche sentiti parecchi buuh, chiari e distinti. Ma perché? Trattasi di un buon film, buono davvero. È che ci son sempre ai festival squadracce di faziosi che, per plurimi motivi, fanno i loro giochi, e così come ci sono gli applausi pilotati, ecco gli altrettanto pilotati fischi e boati di dissenso. O forse erano solo vedove di Orson Welles, che non hanno perdonato all’abbastanza oscuro australiano Justin Kurzel (questo è il suo secondo film) di aver osato là dove il Maestro dei Maestri aveva già dato. Un film di tenebra, questo di J. Kurzel, una tenebra interrotta e come segata da fioche luci di candele o da torce bracieri, e da roghi assassini. Un Macbeth mai trombonesco e gigionesco, mai declamatorio, uno Shakespeare riproposto in tutta la sua forza e veggenza di indagatore dell’umano e delle sue pulsioni basse e alte, soprattutto le prime. Qualcuno tirerà in ballo Il trono di spade, molto ispirato a Shakespeare difatti, ma fortunatamente il regista venuto dall’Australia non cavalca l’onda della serie tv più amata e se ne tiene stilisticamente e visivamente lontano, semmai ricordando in certe momenti di battaglia e in certi segni di guerra (la faccia pittata e tatuata) il Braveheart di Mel Gibson. Certo ci si aspetterebbe in questo Macbeth girato con i soldi dei fratelli Weinstein un colpo d’ala, uno scarto, una sorpresa di messinscena. Invece non ci sono picchi, i momenti di turgore della storia vengono come depotenziati e uniformati al resto della narrazione. Un film sintonizzato su un registro di basso continuo, costantemente plumbeo e dark, come un incubo che si srotoli lento e implacabile. Anche le parti diciamo così supernatural o eccentriche, che si presterebbero a un’incursione nel fantastico, come l’apparizione delle streghe, sono omologate al tono ferrigno, materico, terroso dominante. Del grandioso-epico comunque c’è poco, questo Macbeth dell’australiano Justin Kurzel è una tragedia da camera e di coppia, concepito e realizzato più come un delirio senza fine, come una proiezione dei fantasmi mentali di Macbeth e signora. Due figure archetipiche, capaci ancora oggi di rendere conto e di fornire utili chiavi interpretative a molti esempi di gestione degenerata del potere. La pazzia di Lady Macbeth, la sua ossessione per le mani sporche di sangue, un’ossessione che la perderà, diventa un monologo a camera fissa sul primo piano di Marion Cottilard, in una luce livida da alba malata, come il collasso psichico di una casalinga diperatissima gravata da sensi di colpa insostenibili. Cotillard, ecco. Forse un gradino sotto all’immeno Fassbinder, ma notevole nel restituire una Lady Macbeth introflessa e meno istrionica del solito. In fondo, lei e il marito sono una power couple come tante oggi in circolazione, solo che allora gli avversari nella corsa al comando li potevi sgozzare, oggi devi ricorrere ad altri mezzi. Non aspettatevi di vedere nella scena finale ‘la foresta che cammina’, Kurzel l’ha piallata via. Certo, non facciamo paragoni con Welles e Kurosawa, e però questo Macbeth se la gioca abbastanza con quello, strano e molto Sixties-Swinging London e di depravazioni più rollingstoniane che shakespeariane, di Roman Polanski.