David Cronenberg non è più Cronenberg o forse non lo è mai stato. Perché passando da un film all'altro, da una fase all'altra, il Canadese si è evoluto/trasformato rimanendo sempre se stesso, passando dalla sua poetica in embrione al compleanno della Nuova Carne, dall'analisi della stessa alla sua evoluzione psico-fisica e, in seguito, metaforica. Passando, nel frattempo, da uno stile all'altro, da un budget all'altro, dalla serie B molto più vicina alla Z fino al cinema più impegnato (M. Butterfly, Crush) e poi più (o meno) commerciale di A History of Violence e La Promessa dell'Assassino. Per finire, negli ultimi anni, nella trappola di un qualcosa di obliquo e sfuggente, difficilmente inquadrabile persino come made in Cronenberg. Ovviamente sto parlando di A Dangerous Method e Cosmopolis, ma anche del nuovo Map to the Stars, ultimo (per ora) capitolo di un ultima fase a braccetto della Prospero Pictures, l'UFO da cui l'alieno Cronenberg può osservare e permettersi di criticare la patria che lo ha adottato (in questo caso definitivamente) ma che lui non ha mai smesso di considerare (probabilmente) una matrigna.
La famiglia Weiss, della California del sud, Sta vivendo il famigerato sogno americano. Sanford Weiss è un famoso terapista televisivo, sua moglie Cristina Weiss si occupa della carriera del figlio Benjie, giovane star della TV. La coppia ha un’altra figlia, Agatha, che a insaputa di tutti è appena tornata in città, misteriosamente sfregiata. Agatha stringe amicizia con un autista di limousine e diventa l’assistente personale di Havana Segrand, un’attrice ossessionata nel voler interpretare il ruolo che fu della madre nel remake di un grande film del passato. Madre che, in qualità di fantasma, continua a turbare la sua vita.
Chi segue Combinazione Casuale sa che David Cronenberg è uno dei miei registi preferiti. E lo è a dispetto di una carriera che, nella sua ultima fase, sta prendendo una strada certamente lontana da quel che i fan si sarebbero aspettati. Ma, si sa, che piaccia oppure no il canadese non è mai stato uno pronto ad adagiarsi sugli allori di una carriera in ogni caso mai alla portata di tutti. La dimostrazione ulteriore arriva con la sua ultima fatica, Maps to the Stars, un film difficile e inusuale che (meglio specificarlo) non è stato scritto da Cronenberg ma dallo scrittore Bruce Wagner. Significa poco: film come A History of Violence o Spider non sono stati scritti dal nostro ma lavori come Cosmopolis sì, e allora qui entra in gioco non il da chi ma il come sia stata scritta la sceneggiatura. E il problema di un film come Maps to the Stars è proprio lo script, i buchi che lo costellano come un cielo stellato, le nubi che si addensano sulla sua superficie. Un problema a cui Cronenberg cerca di ovviare piegando il lavoro di Wagner alla sua poetica. E allora una visione spietata del jet set U.S.A., che ricorda molto da vicino il lavoro fatto dal nostro Paolo Sorrentino in La Grande Bellezza, diventa l'ulteriore occasione per riflettere sulle mutazioni che portano la finzione ad diventare più reale del reale. Mutazioni psicologiche, non più fisiche, qui persino parapsicologiche che trascendono la realtà facilmente (si fa per dire) indagabile con metodi analitici. Non siamo più dalle parti di M. Butterfly o di Crash, non siamo da quelle di Spider e nemmeno da quelle metaforicamente traslate in fiction di La Promessa dell'Assassino: in Maps to the Stars Cronenberg si confronta con l'aldilà e, per farlo, lo porta aldiquà osservandolo attraverso l'occhio distorto della psiche umana. Distorto perché questa (la psiche) ha subito e assorbito le violenze perpetuate ai suoi danni dal "sistema", dalla società. E Hollywood, forse, è il sistema sociale che più violentemente agisce sull'individuo portando quest'ultimo a concepire la finzione su cui si basa l'unica verità possibile.
IL POST PUO' CONTENERE SPOILER
Hollywood luccica e lo fa fino a bruciare. Il fuoco non epura più ma lascia tracce indelebili tanto sulla pelle quanto nella mente. I fantasmi di un passato impossibile da esorcizzare allora ritornano e perseguitano i vivi. Fantasmi che dicono una verità che nessuno vuole ammettere, che appaiono ai vivi intrappolati in un'illusorio labirinto dalle pareti color porpora. La malattia mentale (presunta o accertata) diventa l'unico modo per liberarsi o, almeno, per cercare di farlo. Ma, badate bene, malattia mentale che ha origini nella carne, nell'incesto. Incesto che perseguita come - appunto - un fantasma la famiglia Weiss: prima il padre e la madre, autori del "peccato originale" e poi i figli Agatha e Benji ma in maniera più simbolica essendo loro imprigionati in un rituale (il gioco/matrimonio che facevano da piccoli e la promesse/poesia che recitavano per suggellarlo) che per concludersi deve aspettare il finale del film. Ma chi si libera dalla prigione della finzione hollywoodiana non può che morire, alla fine. E allora la follia, l'ennesima maschera, viene giù e rimane solo il vuoto di una verità che nessuno potrà raccontare. Maps to the Stars è quindi un film pessimista, sì, ma che trova una via d'uscita. Non è La Grande Bellezza che ci dice "o vi adattate allo star system o morite". I suoi personaggi non sono intrappolati in un sogno consolatorio (che diventa incubo) come quelli di Mulholland Drive o Inland Empire di David Lynch. Perché, nel film di Cronenberg, fingere vuol dire mettere a posto le cose, il sogno diventa reale e questo accade soprattutto lì dove i sogni si fabbricano. Quando la finzione cade, cade anche la realtà e dietro non rimane nulla. E la caduta non fa rumore.
Certo, raccontato così sembrerebbe quasi di ritrovarsi di fronte a un gran bel film. E le cose stanno così se prendiamo Maps to the Stars da un punto di vista prettamente tecnico. Perché Cronenberg sa come girare un film, sa come girare le scene, sa come imprimere il proprio marchio e piegare qualcosa di non suo alla sua poetica. E questo drammone raccontato come fosse un thriller soprannaturale non annoia mai perché spinge lo spettatore a farsi delle domande, a chiedersi come potrebbe andare a finire. Solo che, effettivamente, questa pellicola non va da nessuna parte. Questa pellicola pone elementi che poi non approfondisce e, al termine dei suoi 111 minuti, lascia lo spettatore intrappolato nei suoi molteplici buchi, annichilito da un senso di incompiutezza inaccettabile, da un silenzio assordante in cui rimbomba la domanda "e allora?". E dico questo pur essendo uno che non pretende spiegazioni ad ogni costo. Non si tratta di non spiegare ma di una sgangheratezza, a livello di script, che non trova spiegazioni. Certo, Cronenberg prova a mettere le cose a posto, ma non sembra riuscirci. Sembra invece che l'idea alla base di Maps to the Stars volesse andare in un senso e il regista in un altro. E non bastano le scene girate bene, il sangue che quando esplode macchia tutto e fa veramente male, che si tratti di morte violenta o di rinascita (le mestruazioni). Non basta l'interpretazione incredibile di Julianne Moore, quella misurata di Mia Wasikowska o la faccia di plastica di John Cusack. Non bastano le maschere che affollano la pellicola sotto forma di personaggi. Perché, alla fine, guardare questo film è come osservare la faccia di Robert Pattinson e non trovarci un'espressione neanche a pagarla. Che possa piacere non c'è dubbio, che possa ipnotizzare è innegabile. Ma, alla fine, non è questo il Cronenberg che voglio e questo probabilmente non è il film che molti cercano.
Sui miei quaderni di scolaro Sui miei banchi e sugli alberi Sulla sabbia e sulla neve Io scrivo il tuo nome.
Su tutte le pagine lette Su tutte le pagine bianche Pietra sangue carta cenere Io scrivo il tuo nome.
Sulle dorate immagini Sulle armi dei guerrieri Sulla corona dei re Io scrivo il tuo nome.
Sulla giungla e sul deserto Sui nidi sulle ginestre Sull'eco della mia infanzia Io scrivo il tuo nome.
Sui prodigi della notte Sul pane bianco dei giorni Sulle stagioni promesse Io scrivo il tuo nome.
Su tutti i miei squarci d'azzurro Sullo stagno sole disfatto Sul lago luna viva Io scrivo il tuo nome.
Sui campi sull'orizzonte Sulle ali degli uccelli Sul mulino delle ombre Io scrivo il tuo nome.
Su ogni soffio d'aurora Sul mare sulle barche Sulla montagna demente Io scrivo il tuo nome.
Sulla schiuma delle nuvole Sui sudori dell'uragano Sulla pioggia fitta e smorta Io scrivo il tuo nome.
Sulle forme scintillanti Sulle campane dei colori Sulla verità fisica Io scrivo il tuo nome.
Sui sentieri ridestati Sulle strade aperte Sulle piazze dilaganti Io scrivo il tuo nome.
Sul lume che s'accende Sul lume che si spegne Sulle mie case raccolte Io scrivo il tuo nome.
Sul frutto spaccato in due Dello specchio e della mia stanza Sul mio letto conchiglia vuota Io scrivo il tuo nome.
Sul mio cane goloso e tenero Sulle sue orecchie ritte Sulla sua zampa maldestra Io scrivo il tuo nome.
Sul trampolino della mia porta Sugli oggetti di famiglia Sull'onda del fuoco benedetto Io scrivo il tuo nome.
Su ogni carne consentita Sulla fronte dei miei amici Su ogni mano che si tende Io scrivo il tuo nome.
Sui vetri degli stupori Sulle labbra intente Al di sopra del silenzio Io scrivo il tuo nome.
Su ogni mio infranto rifugio Su ogni mio crollato faro Sui muri della mia noia Io scrivo il tuo nome.
Sull'assenza che non desidera Sulla nuda solitudine Sui sentieri della morte Io scrivo il tuo nome.
Sul rinnovato vigore Sullo scomparso pericolo Sulla speranza senza ricordo Io scrivo il tuo nome.
E per la forza di una parola Io ricomincio la mia vita Sono nato per conoscerti Per nominarti Libertà.
(Paul Éluard)